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copertina numero 62 la bassa

la bassa 62, anno XXXIII, n. 62, giugno 2011

Estratti di articoli e saggi nella nostra rivista “la bassa/62”

In copertina:
Particolare della carta
Fori Iulii accurata descriptio
dal “Theatrum Orbis Terarum” di Abraham Ortelius (1527 - 1598)
Anversa 1573.
150° Unità d'Italia
Cerimonia in Piazza Indipendenza.
L'alzabandiera con il sindaco Micaela Sette.

Sommario


Mezzo secolo d'arte in Friuli e a Trieste
ENRICO FANTIN

La mostra che a Villa Manin e, contemporaneamente, nella Galleria “Sagittaria” di Pordenone celebra i cinquant'anni del Centro Friulano Arti Plastiche, fondato a Udine il 12 febbraio 1961, è un evento culturale di prim'ordine, e svolge la funzione di uno straordinario “museo provvisorio dell'arte contemporanea nella nostra regione”, così definibile perché rimarrà aperto fino al 28 agosto 2011. Poi le opere rientreranno nelle collezioni di provenienza.

Nella splendida villa dogale di Passariano sono rappresentati al meglio, i migliori artisti friulani e triestini della seconda metà del Novecento, da Candido Grassi a Dino Basaldella, da Afro a Zigaina, da Mirko a Mascherini, da Alviani a Celiberti, da Devetta a Pizzinato, da Carà a Predonzani, da Pittino a Dora Bassi, da Ceschia a Nane Zavagno, da Altieri a Doliach, da Tramontin a Bottecchia e molti altri che, con la loro partecipazione, hanno illuminato le settecentotrenta mostre allestite dal Centro in mezzo secolo.

Ogni artista è presente con una o due opere fra le più significative della sua produzione, riprodotte in un sontuoso catalogo in due volumi raccolti in cofanetto: il primo dedicato alla storia del Centro, curato da Gianfranco Ellero, presidente in carica da diciassette anni; il secondo, curato da Giuseppe Bergamini, alla mostra dei cinquant'anni.

Superfluo dire, date le “firme”, che si tratta di una pubblicazione davvero storica, che raccomandiamo all'attenzione di tutti i nostri soci, alle nostre biblioteche comunali e al pubblico degli amatori d'arte.

La mostra è arricchita da una sezione dedicata ad alcuni artisti carinziani e sloveni, che collaborarono con il Centro nella fase iniziale, cioè negli anni Sessanta, e poi furono assidue presenze nelle mostre internazionali, denominate Intart, Intergraf Alpe Adria e Incontro Centro Europeo, e da una piccola antologia che onorerà la memoria di Anzil nel centenario della nascita. Per dare una misura dell'attività del Centro, bastano i dati seguenti: 900 soci iscritti; 730 mostre in Friuli, in Italia, in Europa e nel Mondo; 2.700 artisti in esposizione; 1.500 opere in collezione; archivio e biblioteca digitalizzati e gratuitamente aperti al pubblico.

Così i dirigenti e gli organizzatori, in particolare Candido Grassi, Vittorio Marangone e Giordano Merlo, realizzarono lo scopo indicato dai fondatori, che era quello di promuovere e valorizzare l'arte contemporanea del Friuli e di creare un “ponte” artistico fra la nostra e le confinanti regioni al di qua e al di là delle Alpi.

E' per questo che il Centro aprì le sue sale di esposizione non soltanto agli artisti più affermati del Friuli e di Trieste, ma anche a numerosi giovani emergenti, divenendo poi stabile corrispondente del Kunstverein di Klagenfurt, della Zveza DSLU di Lubiana, delle Landesgalerie di Klagenfurt e di Eisenstadt, e di altre istituzioni artistiche della Mitteleuropa e oggi, nel quadro culturale della nostra regione, può svolgere la funzione di struttura di documentazione, archiviazione e studio dell'arte contemporanea del Friuli, di Trieste e delle regioni dell'Alpe Adria.

L'evento non poteva certo passare inosservato sulla nostra rivista, anche perché una parte non marginale della mostra riguarda il nostro paesaggio, come risulta dalla riproduzione di alcune opere esposte a Villa Manin, firmate da illustri pittori del Friuli - basterebbe citare Fred Pittino - e anche da illustri artisti d'oltralpe che frequentavano, per invito del Centro Friulano Arti Plastiche, la spiaggia di Lignano per i “Soggiorni di esperienza”, colonie estive di artisti delle tre regioni confinanti sulle Alpi Giulie nella prima metà degli anni Settanta.

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Echi del giovedì grasso 1511 nella Bassa friulana
ROBERTO TIRELLI

Con forse troppa enfasi, anche perché pochi sono a conoscenza dei fatti, si sono celebrati nel 2011 i fatti, tutt'altro che edificanti per quel che riferiscono i cronisti d'allora, della rivolta contadina del giovedì grasso. Le ragioni di questa celebrazione, oltre l'anniversario storico dei 500 anni di un evento più unico che raro nelle vicende friulane, sono state  ammantate di retorica, quando non hanno proprio affatto un significato politicizzabile.

La  Bassa friulana in quel momento di follia, in un contesto di guerra, di tradizione carnascialesca e di rivendicazioni sociali, non ha avuto molta rilevanza perché lontana dai luoghi principali degli eventi, la città di Udine e la collina dai molti castelli. Per andare a Udine ci voleva con i mezzi di allora a disposizione dei contadini, nella migliore delle ipotesi, una buona giornata se non di più. Il che ebbe non poca importanza  poiché anche le più forti ragioni rivoluzionarie si dovevano arrendere a fronte delle difficoltà a muoversi in tempi rapidi. Anche le notizie, pertanto, ci mettevano lo stesso lungo tempo ad arrivare nei paesi della Bassa, in gran parte isolati nella campagna e in periodo invernale ove il freddo consigliava di stare accanto al fuoco più che  di andare all'assalto dei castelli ed alla caccia dei signori.

E' vero che nella Bassa c'era stato il prologo della rivolta in una stagione, però, più propizia ed a scaldare gli animi non era certo il vino, ma il solleone. L'assalto al castello di Sterpo, infatti, viene considerato soprattutto dall'Amaseo come una delle più palesi manifestazioni di un malcontento dei contadini nei confronti della nobiltà. In realtà il malcontento c'era, ma per una precisa ragione. Albertino Colloredo, il castellano, aveva violato una delle regole tradizionali della gestione medioevale delle terre, sfruttando a suo conto le paludi che, da tempo immemorabile costituivano invece, come pars massaricia, una risorsa  comune dei villaggi all'intorno. Più che una rivendicazione sociale s'era trattato di ristabilire un diritto e, poi, ovviamente, già che c'erano i contadini s'erano presi la libertà di saccheggiare i magazzini e la cantina, esasperati già da tempo dal rincaro degli oneri dominicali dovuti alla inflazione causata dallo stato di guerra.

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Due strane sculture di pietra a Pradumbli.
ENRICO FANTIN

La Carnia è costellata da una miriade di paeselli da presepe che conservano ancora intatte le memorie del tempo. Pradumbli, frazione di Prato Carnico, è una fra queste affascinanti località ed è l'unica frazione posta sulla sponda destra del torrente Pesarina di fronte all'abitato di Prato. “Il castello di Pradumbli, detto anche in latino Castrum Dominarum e in lingua del paese des Dumblans era situato nella Villa di Pradumbli”, così lo storico Niccolò Grassi nelle “Notizie storiche della Provincia della Carnia” stampate a Udine nel 1782 attesta l'esistenza di un castello a Pradumbli, inserito in un sistema di cinque fortilizi (Agrons, Luincis, Pradumbli, Frata e Monaio) a presidio della Val di Gorto. E proprio la posizione strategica del castello che sorgeva in quel sito per dominare tutta la Val Pesarina e le vie di accesso con il Cadore e la Val Degano, spiegherebbe la collocazione di Pradumbli (unico dei 10 paesi della vallata) sulla sponda destra del torrente Pesarina di fronte all'abitato di Prato.

La frazione di Pradumbli sorge a 678 metri sul livello del mare e si raggiunge attraverso il percorso di un'antica mulattiera, ora allargata a strada, che porta alle poche case pigiate e svettanti in cerca della luce soffusa del pomeriggio. Le case sono ben ristrutturate dopo il terremoto del 1976 e tutt'oggi si notano i continui lavori di restauro sulla borgata. Le viuzze sembrano deserte, ma si notano i fumi dei camini delle case dove risiedono 56 abitanti in 24 famiglie.

Gli abitanti di Pradumbli, durante Caporetto, furono gli unici della valle a salvare la campana della loro chiesa e a nasconderla, seppellendola nel bosco, sottraendola così ai soldati austro-ungarici.

Pradumbli è conosciuto come il “paese degli anarchici”, ma sembra che nessuno voglia parlare di questa storia. Eppure le vicende raccontano che proprio Prato Carnico è zona di antica e radicata tradizione anarchica come la Carnia è terra di resistenza.

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Aquileia e le amministrazioni “controllate” durante la Grande Guerra
GIORGIO MILOCCO

La guerra italo-austriaca, auspicata e definita come guerra per la “redenzione di Trento e Trieste”, regalò sin dai primi giorni poche soddisfazioni alle alte gerarchie militari italiane. La popolazione locale non riservò alcuna manifestazione di entusiasmo all'ingresso delle truppe nel Friuli Imperiale (ore 04:00 del 24 maggio1915). Si dovette attendere l'8 giugno 1915 perché le truppe superassero l'Isonzo e giungessero a Monfalcone. Nel contempo gli austro-ungarici si erano posizionati sul Carso pronti a controbattere colpo su colpo.

Le attività economiche locali, già rallentate dalla mancanza di manodopera dovuta alla partenza degli uomini per il fronte allo scoppio della guerra contro la Serbia, erano sospese, le poche industrie manifatturiere ferme, la linea ferroviaria interrotta, i ponti distrutti. Decine di migliaia di militari avevano occupato le campagne, i borghi e le cittadine “liberate”; vennero costruiti baraccamenti, officine, centri operativi e di sussistenza, depositi ed ospedali (1). La presenza delle truppe italiane portò alcuni benefici al territorio della Bassa Friulana. Furono potenziate le vie di comunicazione stradali, fluviali e ferroviarie grazie alla costruzione, a scopo militare, di nuovi tracciati ferroviari, strade, e ponti sull'Isonzo. Questo consentì di mantenere un constante rifornimento di beni e materiali ai soldati e civili. Ad Aquileia, la riapertura di tracciati fluviali permise che i trasporti di merce fossero effettuati direttamente dal cosidetto “Porto Nuovo” (2), dove potevano approdare imbarcazioni che in precedenza avrebbero utilizzato la “Litoranea Veneta”.

L'occupazione causò però anche ingenti danni alle colture e consistenti furti campestri. La vita quotidiana della popolazione locale venne radicalmente cambiata da un giorno all'altro, ed era ora scandita da cannoneggiamenti e bombardamenti aerei a.u. verso punti strategici e nevralgici come le vie di comunicazione e il Comando della Terza Armata, sull'attuale via Trieste a Cervignano (Villa “Bresciani- Attems”) (3). Gli abitanti venivano avvertiti del pericolo tramite il suono delle sirene o delle campane. Le comunità locali furono inoltre sottoposte a vincoli e divieti di circolazione; venne costituito una sorta di “cordone di sicurezza” che nessuno poteva attraversare senza permesso.

In base ai decreti in vigore (Intendenza Generale e di Armata) il governo politico ed amministrativo passò dalle autorità civili a quelle militari le quali, in conformità all'art. 43 della Convenzione dell'Aia del 1907, dovevano “riportare alla normalità le condizioni di vita nei territori occupati, occuparsi dell'ordine pubblico, della sicurezza dei collegamenti per l'esercito, aiutare la popolazione civile e le autorità locali in tempo di guerra”. Secondo le norme sottoscritte in ambito internazionale la popolazione locale non aveva obbligo di fedeltà verso l'occupante il quale non avrebbe potuto pretenderla; una delle condizioni primarie perché venisse riconosciuto lo stato d'occupazione era l'effettiva autorità dell'occupante sul territorio, nel cui ambito l'invasore non aveva comunque diritto di applicare la propria legislazione fatta eccezione per le questioni di ordine pubblico. Le autorità militari italiane vollero però imporre una propria amministrazione definendola “eccezione alla regola” (4) e avviarono una politica di vera e propria integrazione con la ferma volontà di eliminare ogni elemento che ostacolasse il processo di italianizzazione. Preso possesso dell'agro aquileiese, sciolsero le Amministrazioni dei Comuni provvedendo all'internamento degli esponenti cattolici e dei parroci (poche furono le eccezioni) (5) che vennero sostituiti da reggenti nominati dal Commissario Civile. Effettuata una disamina dell'attività svolta dalle diverse amministrazioni e della rispettiva contabilità, gli inquirenti approfondivano le loro conoscenze con interrogatori. Anche gli istituti bancari e le società ricreative-culturali e sportive furono sottoposte a questa prassi. Le conseguenze dell'occupazione militare italiana del Friuli austriaco (1915/1917) e di quella successiva all'armistizio di “Villa Giusti” (sino il 31.7.1919) attendono ancora di essere approfondite da ricerche mirate come la presenza a Cervignano del Commissario Civile.

Il 29 maggio 1915 il Comando Supremo dell'esercito costituì ufficialmente a Udine il Segretariato Generale per gli Affari Civili diretto dal Prefetto Agostino D'Adamo (6) (vice Carlo Galli), che rispondeva del suo operato alla stessa struttura gerarchica che lo aveva creato. A capo del Distretto Politico di Gradisca (Distretti giudiziari di Gradisca e Cormons) venne posto Casimiro Avogadro di Quinto (7) mentre a capo del Distretto di Monfalcone (che comprendeva Cervignano e Monfalcone) Francesco Crispo Moncada (8). Cervignano venne scelta come sede del Commissariato Civile per il Distretto di Monfalcone; gli uffici erano probabilmente collocati in Piazza Unità d'Italia, accanto al vecchio municipio. Le informazioni raccolte nel corso degli ultimi decenni sembrano suggerire che i provvedimenti presi ed i bandi militari facessero parte di un preciso disegno politico non propriamente tenero nei confronti della popolazione.

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Delitti fra nobili parenti e in burocrazia nella patria del Cinquecento
MAURO BULIGATTO

I resoconti cinquecenteschi del nobile Soldoniero di Strassoldo, che «imprese a notare gli avvenimenti del suo tempo e a dettare la sua cronica», furono presentati nel 1895 per cura di Ernesto Degani. Il canonico le rese note al pubblico attraverso l'Accademia udinese, dopo aver trascritto la cronistoria autentica ricevuta dal conte Nicolò Panciera di Zoppola.

La casata nobiliare goriziana degli Strassoldo può essere ritenuta come una delle più antiche e importanti del Forum Julii1. Un insediamento feudale da collocarsi, sia pure in via ipotetica, a prima del periodo di piena reggenza aquileiese, anche se l'iscrizione alla storia ufficiale risale, comunque, a un atto concessorio del 11252. Invero nel documento questa casa è rappresentata, a latere del duca di Carinzia, del conte Mainardo e di due altre nobili famiglie, anche da Lodovico di Lavariano, che ebbe possedimenti estesi ben oltre il villaggio omonimo (Cfr.: Paschini 1990, p. 250). La medesima famiglia prese a identificarsi, in un secondo tempo, tramite la forma onomastica di Strassoldo, Strassau o Strashò. A tale proposito pare che il nome di casato assunto collimi proprio con un'omofona micro-designazione di luogo (una ‘strada vecchia')3 in antico presente a Lavariano (Cfr.: Alberti - Geromet 1999, p. 256). L'elemento antroponimico Strassoldo evidenzia verosimilmente delle ascendenze germaniche (Cfr.: Frau 1978, p. 113)4 mentre resta ancora ipotetico l'areale geografico di partenza (cfr.: Alberti - Geromet 1999, p. 256)5.

Questo clan numeroso, frazionato in molti rami, si consolidò nei secoli acquisendo moltissime proprietà. In aggiunta diversi suoi membri si distinsero rivestendo cariche politiche, militari ed ecclesiastiche: entro lo stato patriarcale, per conti goriziani e presso gli Asburgo.

Anche nella genealogia della linea di Soldoniero incontriamo diverse figure di spicco. L'omonimo nonno fu maresciallo del conte di Gorizia nonché capitano di Castelnovo e Belgrado, il padre Federico, non da meno, aveva militato per Massimiliano I. Divenne anche ambasciatore ma, per alcuni sospetti che l'imperatore reputava coinvolgenti l'ufficio del nobile friulano, fu rimosso e processato6. Pure il fratello Giovanni, amministratore scorretto del patrimonio familiare dei nipoti minorenni, servì Massimiliano. Lo stesso si può asserire per Soldoniero il quale, nell'osservanza del celibato promesso al fratello, prestò parimenti servizio in seno alla corte imperiale.

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A pescà con la togna
BRUNO ROSSETTO DORIA

Gera un per de ani che no ndevo più a togna (pescà con la cana). Ma dopo sintùo che vigniva ciapàe tante orae, che la zente la vigniva in tel nostro palùo de dute le bande a ciapale, sibèn che no i gera paruni de l'uso civico de nantre maranisi, me son dito: “E parché no go de ciapale anca mì?” Qualchidùn el se domandarà el parché in sti ani in palùo (laguna) se trova tante orae grande, ma basta tornà in ti ani Sinquanta par capì el parché? In quela volta no vedevomo l'ora che rivissi el primo aprile, el zorno che vigniva verto de ndà a trata par pescà le oradele, parché par qualchi fameja, se la veva furtuna de ciapaghene tante la riveva pagà i debiti fati l'inverno par magnà. Le oradele in quela volta le costeva un saco de schei. I valisani i vigniva de Ciosa a cronpale. Ma dopo, pena inventò che se podeva fale in proveta, fale cresse indrumàn dandoghe mangime de magnà, el pressio el xe calò de colpo, no le costa più gnente, e parché ai pescaùri no ghe convièn più ciapale, lore le resta a cresse in aqua. E cussì, pena che fa bela stjòn le entra in palùo, dato che le trova peoci, ostreghe e altre robe bone de magnà. Finia la stajòn le va fora de eto e le torna in primavera un giosso più sichignìe parché de inverno no le magna. Ma dopo qua le deventa subito grasse; in tre quatro misi le riva do tre eti. Romai in sti ultimi ani ne entra in palùo senpre de più, e de più grande: serte de lore le passà anca el chilo.

Che robe fioi! Se penso che na volta podeva magnale sol i siuri parché le costeva massa, desso le trovemo a sinque Euro, in pescaria. Sì, de alevamento e no quele ciapàe in palùo o de mar. Parché lore che le costa tre volte de più. Ma tornemo al discorso del parché me xe tornada la voja de pescà con la togna... Tignivo el scafo in darsela “Porto Maran” e proprio rente el mio, gera quel de un sior de Marghera. Le prime volte no vevo fato caso: el diseva che ghe piaseva Maran, che ‘l veva tanta passiòn de pescà con la togna. Ma longondà che lo saludevo, sicome che ‘l vigniva massa spesso e la bensina la costa tanti schei, go provò tignilo de ocio. El riveva in ti urdini de: passò el ponto de luna, l'aqua la tacheva ciapà ordene e, senpre de matina che gera ancora scuro. Lo vedevo rivà prima de mesozorno. Dopo scargàe e metue in machina le togne, el sercheva de no fa vede la pescàda. El coverseva el secio de le orae con la giaca a vento. Quela matina gero rivò a vede le orae parché la ghe gera cascàda. Mama mia! go fato, altro che par sport? In tel secio gera più de diese chili de orae bele grande. Vevo capio che ‘l gera un professionista de quii bravi, altro che par magnà e par passiòn de pescà. Pian piàn gero vignùo savè de elo, che ‘l pescheva con le ranicole e coi vermi duri. Ma el veva anca i “bibi” (vermi de mar. Però el pescheva in meso el Porto de Buso; giogo par mi piricoloso, dato che vevo smesso de ndà togna colpa do multe ciapàe proprio parché peschevo in porto.

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Cirî claps - Cercare selci
ADELMO DELLA BIANCA

Le più antiche evidenze preistoriche nel territorio di Muzzana del Turgnano.

Questi testimoni di un'epoca lontana sono i resti che raccontano, muti, il passato di genti che ci hanno preceduto. Sono un'impronta sul nostro essere. Procurano emozione, forzano alla riflessione sul tempo di prima e del dopo che verrà.

Furono scoperte nell'anno 1999 in località La Favorita e Stroppagallo. Ricognizioni sul territorio, con prospezioni a vista sui terreni arati, portarono alla scoperta di diverse stazioni (siti), ubicate sulla sinistra e destra orografica dell'attuale Roggia Ravonchia (o Ravonchio, localmente Ravòncli). I materiali silicei in superficie, ivi raccolti e ammontanti a migliaia di pezzi, furono in seguito esaminati da Andrea Pessina della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Friuli Venezia Giulia di Udine. Pessina & coll., tra i quali il sottoscritto, ne diedero notizia in un articolo nel volume Preistoria dell'Italia Settentrionale - Studi in ricordo di Bernardino Bagolini, pubblicato nel 2006 con gli Atti del Convegno di Udine del 23-24 settembre 2005.

E' stata così di nuovo documentata la presenza nella Bassa friulana di siti mesolitici, fra i quali uno di grandi dimensioni, con un'occupazione riferibile alla fase recente (Castelnoviano). Si erano già attestate nella bassa pianura presenze mesolitiche a Bertiolo-Venchiaredo, S. Giorgio di Nogaro e Porpetto-Cembirs. Nell'alta pianura vanno citate le stazioni di Castel di Aviano, Colli di Dardago, Pra Feletta, i siti di Ziracco, di Molin Nuovo e di Aviano; nella bassa montana il riparo di Biarzo e la grotta Cladrecis, i siti di Fornaci di Mezzo e Corno di Rosazzo, di Corno-Ripudio, Cassacco, Rive d'Arcano, Ragogna e Fagagna, inoltre Col Manzon, Casera Valinis e Sequals; in alta montagna si hanno loro tracce a Passo Pramollo sopra Pontebba, Casera Valbertad e Sella Biéliga. Come si nota, le presenze mesolitiche in Friuli sono numerose e distribuite su tutto il territorio.

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Il batocju picinin
FRANCA MIAN

Al si scjasse
e al cjante
il batocju
picinin:
il miò mont
une campane
il miò mont
al è picinin.

Glin glan.

Cussì, e si disfe
tal sô glon
di chest mont.

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Di un filologo portogruarese all'università di Oxford 1909-1940: Cesare Foligno
GIACOMO TASCA

Nei primi anni Trenta del Novecento a Portogruaro si parlava della famiglia Foligno originaria del milanese e trapiantata a Portogruaro all'inizio del XX secolo. Decio Foligno, la cui sorella Carlotta era sposata con il conte Freschi di Cordovado, aveva deciso di acquistare uno dei più bei palazzi rinascimentali di stile veneziano di cui Portogruaro era ed è tuttora dotata. Il suo primo figlio, Cesare, che era nato a Giussano nel 1878 e si era laureato in Belle Lettere presso l'Accademia Scientifico-Letteraria di Milano, si era iscritto all'anagrafe di Portogruaro il 22 febbraio 1901 rimanendovi iscritto fino al 1931 quando venne cancellato perché ufficialmente trasferito a Oxford in Inghilterra. In realtà egli si trovava già dal 1903 in Inghilterra dove, dal 1909, insegnava lingua e letteratura italiana all'Università di Oxford in qualità di Taylorian lecturer.

Nel periodo 2008-2009 nel compilare i regesti di una partita di corrispondenza indirizzata al professor Giovanni Tullio di San Vito al Tagliamento mi sono imbattuto in alcune lettere inviate dall'amico Cesare Foligno da Napoli tra il 1962 e il 1963. Il testo stesso delle lettere scritte con lo stile elegante e incisivo di Foligno su temi che toccavano la letteratura e la politica degli anni Sessanta, le sue ultime fatiche letterarie e i rapporti con il loro editore mi avevano suggerìto l'idea di tentare qualche ricerca sull'attività letteraria di Foligno, ricerca nella quale ho coinvolto il professor Carlo Costanzo, presidente dell'associazione sanvitese “Amici della Biblioteca”. Una volta assunte ulteriori informazioni bibliografiche ci siamo dati alla ricerca di sue opere sul mercato bibliografico antiquario e abbiamo potuto disporre entro breve tempo di due opere di notevole importanza: “Dante” edito dall'Istituto Italiano di Arti Grafiche di Bergamo nel 1920 in lingua italiana e “Latin thought during the Middle Ages” edito da Clarendon Press di Oxford nel 1929.

Presso l'unica nipote di Cesare Foligno vivente a Portogruaro abbiamo raccolto notizie sulla vita dello zio con il quale aveva mantenuto rapporti epistolari durante le molte vicende della sua lunga vita e abbiamo potuto consultare una ricca raccolta fotografica soprattutto incentrata sul periodo della permanenza in Inghilterra. Nel mese di ottobre 2009 ci fu possibile presentare al pubblico in due serate, che hanno visto la cooperazione delle associazioni pordenonesi “Accademia San Marco” e “Dante Alighieri”, un profilo biografico del filologo e tre letture, di cui due sulle opere sopra citate e la terza sulla corposa produzione sul Foscolo critico del periodo inglese tratta dai tre volumi di studi foscoliani esistenti presso la Biblioteca Civica di Portogruaro. In tempi successivi ho potuto raccogliere ed esaminare altre opere di Foligno edite in lingua inglese e in italiano. Questo lavoro ha dunque lo scopo di rendere noto ai lettori di “la bassa” quanto mi è noto sulla vita e sulla produzione letteraria di Cesare Foligno.

Cesare Foligno visse e lavorò dal 1903 al giugno 1940 a Londra e a Oxford e dal 1940 al novembre del 1963 a Napoli dove morì il giorno 8 di quel mese e anno. Fu sepolto nella tomba gentilizia della sua famiglia a Portogruaro dove volle essere tumulato. Prima di morire aveva già preparato il testo dell'annuncio da stampare sul Times e sui giornali italiani.

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Pietro Quirini: “lo scopritore” del baccalà
GIANNI STRASIOTTO

Da un buon numero d'anni conosco Paolo Francesco Quirino Quirini, patrizio veneto, conte di Castel Termini e Casali di Dafnes (Candia), residente nel pordenonese. Mi era anche sommariamente nota la complicata storia della sua antica famiglia - divisa in vari rami - cui ero interessato per la curiosità di trovare i legami con il passato della zona in cui vivo, a sud di Pordenone, e mi era capitata qualche occasione per frequentare la gran villa Quirini a Visinale di Pasiano, oggi divisa tra più discendenti dell'illustre casato.

Recentemente, insieme con alcune altre persone, durante un incontro organizzato da una comune amica, ho avuto modo di sentire una sua relazione, nel corso della quale il conte Paolo ha parlato delle origini del ramo del suo casato - quello detto dei Quirini di Candia (ora Creta) - e ho potuto ascoltare la storia della “scoperta” fatta da un suo avo: il merluzzo salato essiccato all'aria, il cui termine corretto dovrebbe essere stoccafisso (stok fis = pesce bastone o pesce essiccato sui bastoni). Stoccafisso e baccalà derivano dal merluzzo, “il pesce veloce del Baltico”. Sono ancor oggi preparati seguendo antichi metodi di lavorazione e trasformazione: lo stoccafisso è essiccato, mentre il baccalà si ottiene con la salatura anche se, a volte, è successivamente essiccato. Esistono quindi due tipi di baccalà, quello solo salato e quello salato ed essiccato.

A Venezia la pietanza ebbe ampia diffusione a partire dai primi del,700, anche se in alcuni ambienti l'uso risale al Concilio di Trento, quando diventa elemento base di una “cucina penitenziale”. La caratteristica infatti è quella d'essere “cibo magro”, così da divenire uno dei piatti che dalla fine del 1563 (conclusione del Concilio), è consigliato nei giorni di astinenza, che per molto tempo superavano i 200 l'anno. La famiglia Quirini, consignori di Latisana, ha fatto parte del “Consorzio dei giurisdicenti” che, dopo i Vendramin, governarono quella “Terra”, detenendo 4 dei 24 “carati”, come si legge nel pregevole studio “La Serenissima a Latisana: 1420 - 1797”, scritto da Mario G.B. Altan, edito da “la bassa” nel 2001.

Solo un cenno su questi giurisdicenti: governavano tramite un capitano e due giudici che si pronunciavano sia in materia civile che criminale.

Riprendiamo da Altan: “Querini - Antichissima famiglia patrizia ed annoverante molti tribuni che alcuni cronisti fanno di origine romana antica. Tutte le cariche della Serenissima Repubblica dalle più rappresentative alle più importanti furono attribuite a membri di questa prestigiosissima e nobilissima famiglia dalla quale si trassero pii gentiluomini nella carriere prelatizie”.

Nel corso di secoli, come in tutte le altre famiglie del patriziato veneto, la famiglia Quirini si divise in più rami i quali presero il nome delle contrade dove si trovava la residenza più importante (S. Maria Formosa, S. Giustina, S. Moisé, S. Severo, S. Leonardo). Si diceva che i Quirini “gran famiglia e gran mercanti," erano capaci di prestar denari a principi e a re, anche se alcuni subirono l'esilio per la famosa congiura del 1310, capeggiata da Baiamonte Tiepolo.

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Sul toponimo Fraforeano
GINO VATRI

Sulla toponomastica italiana e friulana, si potrebbe scoprire che svariati nomi di località potrebbero avere etimi derivanti dall'inglese antico. Infatti, gli autori di toponomastica inglese, periodicamente, fanno delle aggiunte e delle correzioni ad ogni capitolo dei libri da loro scritti ed io credo che anche in Italia si verifichi lo stesso.

I toponimi italiani, quelli friulani in ogni caso, hanno un'origine anglosassone e vengono dall'Inghilterra: affermo questo da venti anni e anche se gli studiosi, alcuni amici personali, non sono mai stati d'accordo, io nutro la speranza che abbiano cambiato idea e si siano resi conto della fondatezza delle mie affermazioni.

Fraforeano nel comune di Ronchis, è un toponimo della Terra di Latisana, la mia terra e quella di Benvenuto Castellarin che su Fraforeano ha scritto alcuni libri. A quanto ha già scritto Benvenuto, “Nino” per gli amici, desidero aggiungere la parte anglosassone e una breve premessa dato che tutte le informazioni si possono trovare facendo una ricerca su internet.

L'anglosassone è la lingua che era parlata più di mille anni fa nella parte sud di quella che è ora l'Inghilterra. Era anche chiamato vecchio inglese o inglese vecchio ed è la madrelingua dalla quale viene l'inglese. A quanti parlano l'inglese moderno sembra una lingua completamente diversa. Quando arrivarono gli anglosassoni, gli abitanti dell'Inghilterra erano bretoni che parlavano una forma di gallese, una lingua celtica. L'alfabeto anglosassone ha tre lettere di più dell'alfabeto inglese moderno. “Frofre” è un termine anglosassone ed è il genitivo singolare di “frofor”, femminile o maschile, in italiano si può rendere con consolazione, conforto, aiuto, sollievo e refrigerio. ‘Frofor' può riferirsi inoltre alla consolazione del padre nei cieli e al conforto mandato da Dio ad una nazione.

La cultura monastica era familiare con questi ideali di consolazione. Le forme friulane per “Fraforeano” sono “Fraforean, Frofean e Frofrean”: il toponimo è documentato per la prima volta il 31 maggio 1222 in un patto tra Asquino di Varmo e il patriarca di Aquileia. Secondo lo storico M.G.B. Altan a Fraforeano esisteva un monasteriolo retto da due o quattro monaci che oltre al monastero attendevano anche alle attività del piccolo ospizio per il ricetto dei pellegrini e mercanti che si recavano allo scalo fluviale di Latisana e trovavano in quel luogo “consolazione, conforto, aiuto, sollievo e refrigerio”. “Frofor”, per l'appunto o “frofra” al plurale, mentre “frofrian” (consolare) è la forma verbale.

Ricapitolando: frofor f., è un nome vecchio inglese al plurale: frofor fa frofra, oppure frofre, che è anche il genitivo singolare. Frofor ha delle analogie con il vecchio sassone frobra e con altre lingue germaniche ma è definitivamente un termine vecchio inglese (anglosassone).

La forma friulana “Frofrean” è naturalmente la forma più corretta sia per l'ortografia uguale lettera per lettera che per la grammatica: ci riferiamo naturalmente al genitivo che corrisponde, si sa, al complemento di specificazione in italiano.

Bibliografia

frofre

Definition from Wiktionary, the free dictionary

Old English

Noun

frōfre

1. Genitive singular form of frōfre.
Retrieved from "http://en.wiktionary.org/wiki/frofre"
Category: Old English noun forms

frofre frofor - Google Search

An Anglo-Saxon dictionary: based on the manuscript collections of... - Google Books Result

Joseph Bosworth, Thomas Northcote Toller - 1882 - English language - 1302 pages
Frofor eft geiamp sarigmodum comfort afterwards came to the sad in mind, Beo. Th. 5875; B. 2941.
Surge ge ne sohton, ne him swxslic word frofre ge spraicon...

books.google.ca/books?id=oXlli1KgDngC...

frofre / genitivo singular de frofor

Frofre - genitivo singular de frofor... ...Gwedynn English-Spanish dictionary. Aticle 10184. frofre.
genitivo singular de frofor. «Previous Next» ...
www.diclib.com/cgi-bin/d1.cgi?I=en&base=gwedynn_eng... id...

Glossary -f

Frofor, f. or m., consolation, comfort, help, relief; ns, frofor; as. frofre, frofor, gs. and ds. frofre. from, prep., see fram ....
beowulf.engl.uky.edu/~kiernan/ENG619/eBeowulf .. .IF.htm
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Middle English Dictionary: FA - Google Books Result

Robert E. Lewis, Hans Kurath - 1954 - Foreign Language Study - 128 pages
[OE frofor; frofor gast, frofre gast.]|. (a) Comfort, consolation, solace; aid, remedy; (b) hali (gastes) frovre, the comfort of the Holy Ghost. ...
books.google.ca/books?isbn=0472010646 ...

frofor - Wiktionary
5 Aug 2010 ... trofor. Definition from iktionary, the free dictionary ...
Sarge ge ne sohton, ne him swaeslic word frofre ge spraecon ....
en.wiktionary.org/wiki/frofor - Cached

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Onore ai Caduti per la Patria!
GIULIANO BINI

In occasione della ricorrenza di un 4 Novembre a Palazzolo, conversando in attesa delle cerimonie, mi scappò da dire ad uno degli astanti: “Prendi uno scalpello, che dobbiamo aggiungere sulle lapidi del monumento i nomi di alcuni Palazzolesi caduti nella battaglia di Lepanto”. Era una battuta, buttata lì per fare sfoggio di una mia recente scoperta storica, di cui mi sentivo orgoglioso. Il mio interlocutore mi guardò stupito e mi raggelò replicando: “Non sono caduti per la Patria! Non sono caduti per l'Italia!”.

In un primo momento ci rimasi male, poi ragionando fra me convenni che forse i miei poveri Palazzolesi, in servitio in armata del illustrissimo dominio de Venetia, non erano morti proprio per la stessa patria, ma non perché una si chiamava Repubblica di Venezia e l'altra Regno d'Italia, i loro nomi non potevano essere incisi sulla stessa lapide perché venivano rapportati ad un diverso concetto di Patria.

Non erano morti, come i 92 loro compaesani e altri 650mila italiani, nella Grande Guerra, per quell'Italia e la sua Vittoria solennizzata il 4 Novembre. Non erano morti per quello Stato Italiano che doveva “liberare”, loro malgrado, i recalcitranti 250mila Tedeschi del Sud Tirolo, i 200mila Sloveni dell'alto Isonzo e del Carso, i 150mila Serbo-Croati dell'Istria, cioè per quel 60% delle popolazioni non italiane delle cosiddette “Terre Liberate”, che eventualmente credo avessero un'altra patria di riferimento.

Non morirono forse nemmeno per liberare la maggior parte dei Trentini, dei Friulani del Goriziano, degli Slavi della Benecja o Slavia veneta, dei Triestini e dei Veneti del litorale, rappresentanti il restante 40% della popolazione “liberata”, molti dei quali, si sentissero italiani o no, avrebbero preferito rimanere, come in seguito e in più occasioni affermato, “soto la [Patria] Defonta”, dove lo Stato era più ordinato e il sale e il caffè costavano di meno. Assolutamente non erano morti, come i loro 75 paesani e altri 450mila italiani, fra il 1940 e il 1945, per il delirio dell'Italia fascista che, senza altre ragioni se non quelle dell'espansionismo imperialista, maramaldeggiò sulla Francia, aggredì la Jugoslavia, la Grecia, la Russia per soccombere su ogni fronte e in fine spezzarsi in una crudele guerra civile.

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Amicizia
MONICA MINGOIA

Rosso - passione e allegria.
Blu - concentrazione e armonia
Giallo - il colore del sole.
Verde - speranza di persone.
Viola - purezza trascendentale.
Nero - come la notte invernale.
Amicizia insieme di colori,
che unisce persone a milioni.
Ognuno rappresenta un colore,
unito agli altri in armonia e amore.

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Gueris
LUIGI CICUTTIN

Ma parsê ànu di fa li' guèris?
Sel pòdia ricurdaŝi un frut
Nassùt tal 1939?
Da l'ùltima Guèrra Grànda
E pur mi visi
Dai bombardamêns
Tal pùnt e tala pasarela
Da li gràvis.
Dai sfolâž
di Tisàna
Ta li' Sèlvis.
Di Pièri Zanèl sfolát encja lui
Chal pedeèva cul trombòn
Da la bànda sitadina.
“But e bu-but “
Di bessòl.
Dai todèscs ca ni
an taiât dùciu i moràrs
Par fâ luz ai canòns. v Dal faŝìston saŝinat
Dai partigians a palotàdis
E pó butât tal “fosso anticarro”.
Di Guàrino me pari mi ricuardi
Chal partìva cul ciapìel di alpìn
E me nòna ch'a dîs a me màri Maria
Ch'a planževa:
“Maria; No ti viodis dal frùt?”
E me mari
Ch'a i' rispùnt pontânt
Il det viars di me durmìnt
Drenti di un žei di samenâ
“Traèlu tal ledàn
Butèlu tal ledàn”

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Le vicende di una famiglia friulana dopo Caporetto “Marianna la profuga”
CARMELA DE CARO

PREMESSA

L'appellativo “Marianna la profuga” mi è noto fin dall'infanzia. Era tempo, dunque, di ricostruire la storia di questa donna e gli eventi che l'avevano condotta sino a Bracigliano, comune collinare nell'entroterra salernitano e mio paese d'origine.

Qui due lapidi cimiteriali arricchite da foto mi hanno permesso di conoscere l'aspetto dei suoi figli e di interrogarmi sul loro vissuto e sulle cause per cui hanno scelto di riposare insieme in un luogo così lontano dal loro Friuli.

A mirare e rimirare i loro volti sbiaditi dal tempo, ho avuto la sensazione che tra le montagne del paese di Bracigliano gli Zoratti abbiano trovato la pace e la serenità che nella loro pianura non avevano trovato per i fatti gravissimi legati alla guerra e per le loro vicissitudini familiari.

Una famiglia questa che, come tante, è sfollata dalla propria patria e mai più vi è ritornata per rintracciare le proprie radici e riappropriarsi del suo ruolo.

IL NOME “ZORATTI/O A CODROIPO
Cerchiamo, per iniziare, le origini del cognome Zorat, Zoratti/o in Friuli e a Codroipo.

I cognomi che portiamo oggi derivano per lo più dai mestieri esercitati in epoca medioevale, ma spesso, derivano anche da soprannomi oppure da variazione del nome paterno o materno. I cognomi friulani terminavano nella maggior parte per consonante; con l'acquisizione, poi, della lingua italiana, gli stessi assunsero una vocale finale, di solito la o per i nomi maschili e la a, per i nomi femminili ma anche la vocale, i, per declinazione. Aggiungiamo che ancora nel 1500 molti cognomi, a Codroipo, avevano un'origine slovena, poiché proprio a sud di Codroipo, vi erano paesi fondati da gente di origine slovena. E tra i nomi più antichi incontriamo “ZORAT”.

Ve n'è memoria storica già nel 1488, quando, tra i debitori della Chiesa di Sedegliano, compare un tale “Zuan de Zorat”. E, nel 1500, il cognome era molto diffuso come testimoniato da don Vito Zoratti nel volume “Codroipo dalla vicinia alla comune”. Interessante, poi, la variazione che ha avuto il nome in Zorato e Zoratti e l'imparentarsi dei primi con i “Bert” di Codroipo.

Il 13 novembre del 1782, infatti, un certo Mauro Zorat, molinaro pure lui, figlio di Gregorio Zoratto e Valentina Comuzzi di Flambruzzo, sposa una certa Maria di Gio: Batta Guato del mulino del Bert e va a Codroipo “cuc” appunto nel mulino del Bert. Questa l'origine degli Zorat nei mulini di Codroipo. Sempre nel volume citato di don Vito Zoratti si riporta che Mauro ebbe due figli: Gio:Batta, che assunse il cognome Zoratto e Gregorio, che mantenne il cognome Zoratti.

Evidentemente questa decisione fu presa per distinguere le due famiglie e la loro discendenza.

Terminiamo, si fa solo per dire, questa interessante storia, e solo per dovere di cronaca e per seguire le vicissitudini di una famiglia e di un cognome che interessa alla nostra vicenda familiare diciamo che le vicissitudini del mulino del Bert si incrociano con la storia di un altro importante mulino, quello della “Siega”.

Vediamo. Nel mulino detto della Siega, così chiamato per i primi abitanti venuti dalla montagna, nel 1804, alla morte di un certo”GioBatta della Siega, subentrarono gli Zorat del Bert che vi rimasero fino al 1941.

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La maiolica a lustro di Valencia (Spagna) in calle Bertrando a Marano Lagunare
MARIA TERESA CORSO

Fra le macerie dei materiali portati a discarica, provenienti da Calle Bertrando (durante gli scavi per la posa delle pavimentazioni delle calli del 2003) si è rinvenuto un frammento di bacile o grande piatto in maiolica di grosso spessore, con piede ad anello, rivestito all'interno e all'esterno di uno smalto sottile di colore rosato con elementi decorativi ispano-moreschi.

La datazione è da porsi entro la prima metà del Quattrocento, tra 1400 e 1450, forse nel primo ventennio del Quattrocento, periodo della famosa Dedizione della fortezza alla Serenissima.

Si tratta di un frammento di produzione spagnola, una varietà di maiolica, decorata a lustro metallico, importata nel bacino del Mediterraneo nel corso del XV secolo e dalla costa toscana fino a Venezia, luogo dove quelle maioliche a lustro venivano molto apprezzate e richieste.

La spedizione a Venezia di maioliche spagnole di Manises (Valencia, Spagna) d'altronde si rivelerà ricca di notizie: il ricordo di questa operazione infatti ci è stato tramandato dai libri contabili appartenuti a Francesco Datini, una compagnia mercantile bancaria, attiva a Valencia a partire dagli ultimi anni del XIV secolo (1). Le maioliche spagnole importate nel XV secolo a Venezia appartenevano ai tipi prodotti a Malaga e a Manises, la cui tecnica era costituita secondo le seguenti fasi: si costruivano i manufatti partendo per le grandi forme da pezzi di creta che in un secondo momento venivano assemblati. La fase successiva consisteva nel ricoprire tutto il vaso o il piatto o il bacile di smalto bianco a base di stagno e, se nel disegno compariva del blu, lo si applicava col pennello sul bianco prima della cottura. Il vaso passava quindi nella fornace da smaltatura, dopo di che veniva colato il lustro liquido con pennello o con piume direttamente sulla superficie smaltata. Il lustro metallico, un sottile strato di metallo si formava sulle superfici quando gli ossidi o i solfuri di rame e d'argento erano ‘ridotti' in un forno a bassa temperatura.

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A “La Brussa”
FRANCA MIAN

Erma marina, urna
di sole armoniosa,
tra i pini si protende
il vento
e un riverbero acceso
da palpebre profonde.
Ma il fiume del tuo
sguardo
-perenne fregio ondoso-
più vivido si distende
non conoscendo ombre
non conoscendo notti.

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Considerazioni sull'esistenza, viste da due personalità artistiche con una sensibilità condivisa: Giorgio Zuppichin - Renato Glerean
ENRICO FANTIN

Questi due artisti hanno unito le loro lunghe esperienze, da sempre rivolte all'osservazione della condizione umana, attraverso la più che quarantennale ricerca pittorica, Glerean, e quella fotografica Zuppichin, per condurre una difficile e delicata esplorazione delle sensazioni dell'animo umano in un momento difficile dell'esistenza quale quello del “crepuscolo”.

Nel loro continuo indagare, i due artisti hanno provato a dare forma a quelle sensazioni nascoste nel profondo della mente che nascono dal vivere quotidiano, dal confronto con se stessi e con gli altri, col mondo contingente e con le sue contraddizioni.

Zuppichin ha indagato, nelle sue ultime ricerche fotografiche: la Serie“ Quel che resta dei sogni”, sulla parte onirica trattandola con una forma fotografica di forte espressività e un'appropriata costruzione tecnica. Con la Serie “In punta di piedi”, con la quale ha vinto il Premio Portfolio –Trieste 2006, ha trattato un tema drammatico quale quello della malattia, l'Alzheimer.

Glerean ha portato la sua espressione pittorica, decisamente personale, ad un efficace equilibrio di forma e contenuto, dove la forza lirica di forme e colori trasmettono le controversie e le speranze esistenziali senza raccontarle. Predilige le opere di grande formato poiché lì si possono sviluppare dei dialoghi complessi. Le sue prime mostre risalgono ai primi anni Settanta, l'ultima si è tenuta a Cividale del Friuli nel 2010, nella prestigiosa cornice della chiesa di S. Maria dei Battuti. Nel 2005 ha pubblicato “Filastrocche per ogni età ...” opera nella quale spazia tra l'ingenuità dell'infanzia e la complessità di tematiche più profonde e attuali.

Nel 2008 hanno deciso di fondere i loro due linguaggi lavorando “a quattro mani” su una serie di opere in cui pittura e fotografia si amalgamano e il cui titolo è “Al crepuscolo - il tramonto degli dei”. Il progetto si è materializzato in 12 pannelli 90x90 ed è stato esposto presso la Casa del Marinaretto di Palazzolo dello Stella dal 9 al 22 Maggio 2009 curato dall'Associazione Art-Port. La descrizione introduttiva è stata tenuta dal dott. Diego Serodine. La serata è stata intervallata da commento musicale del maestro Gianni Favro (clarinetto) e Paola Selva (chitarra) e intervento conclusivo del presidente della Bassa Cav. Enrico Fantin.

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Oggetti ed attrezzi pignorati dalla “Camera dei pegni” di Rivignano
BENVENUTO CASTELLARIN

Nell'Archivio di Stato di Udine, fondo “Giurisdizioni feudali, Ariis”, busta 108, è depositato un fascicolo di 51 carte numerate (recto e verso), più 3 contenenti l'elenco alfabetico e il numero della carta di riferimento.

In copertina reca la data MDCCV (1705), con le scritte Primus - PIGNORUM CAMERE AREARUM - Coeptus die Martii 1705 - Termina die ianuarii 1706 - Ioannis Baptista Bini can.e - Primo - Pignoramenti della Camera (dei pegni) di Ariis, Cominciato il giorno .. del mese di marzo 1705, termina il giorno .. del mese di gennaio 1706 - Giovanni Battista Bini cancelliere. La definizione di Primus ‘primo', fa pensare che il citato fascicolo sia il primo registro della camera dei pegni del feudo di Ariis ubicata, almeno in quel periodo, a Rivignano.

L'esistenza di una Camera dei pegni a Rivignano è documentata da un atto notarile fin dal 1676. L'atto, rogato a Pocenia il giorno di venerdì 20 novembre di quell'anno, nello studio del notaio stesso, attesta che si presentò Roccho officiale del castello d'Ariis haver già giorni 30 in circa, presentato un mandato penale di lire 50, … levato ad instanza dell'officio della Camera dei Pegni di Rivignano contro Giacomo Zanino di Pocenia, per conto di Agnolo Zanetto che in precedenza aveva fatto da garante (ASU, Giurisdizione di Ariis, b.107).

La Camera dei pegni, in tempo feudale, era una istituzione di cui le autorità comunali si servivano nei confronti di chi non onorava i debiti nei termini stabiliti. Il funzionamento della camera dei pegni e le procedure coattive che venivano poste in atto dalle autorità erano ben diverse da un banco di pegno o da un Monte di Pietà.

Il banco di pegno aveva il compito di fornire denaro a chi ne aveva bisogno, previa consegna di un pegno in garanzia, più il pagamento dell'interesse, detta usura che nei banchi di pegno gestiti da ebrei, andava dal 12½ e oltre. Non era nemmeno un Monte di Pietà il quale si differenziava dai banchi di pegno feneratizi solo perché praticava un tasso d'interesse notevolmente inferiore: circa il 6%.

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Le Beccarie: antico toponimo a Marano
MARIA TERESA CORSO

Lo studio degli atti notarili redatti dal notaio Angelini nell'ultimo trentennio del Settecento, risulta essere anche una ricca fonte di informazione che rigurdano le antiche case maranesi e i luoghi dove si svolgevano le diverse attività commerciali.

Un atto notarile del 1781 ha oggetto la casa di cui era proprietario Domenico Raddi q. Gerolamo. Domenico era sposato con Lucia ed ebbe tre figli: Antonio, Girolamo nato nel 1695 e Paolina.

Detta casa, che subì complessi passaggi di proprietà tra fratelli e rispettivamente eredi, viene individuata dall'Angelini come le beccarie, senza indicazione della consistenza. Si suppone comunque che si tratti della stessa casa individuata trent'anni più tardi al catasto del 1811 con l'indicazione di pertiche 0,50.

La casa, distinta con i due mappali numero 120 (1) e 152 (2), divenne di proprietà degli eredi di GioBatta Vatta, cioè della vedova Zanetta, del figlio minore Francesco e dell'altro figliolo Valentino, che nel 1814 faceva l'ufficiale di stato civile nel comune di Marano, e del terzo figlio Vido Vada.

Nel 1781 Vido, per il quale veniva redatto l'atto, venne liquidato con 505 lire, cioè con un quarto del valore della casa (2.340 lire/4 = 505 lire) più altri beni, dalla madre Zanetta e dai fratelli.

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Luigi Italo Urbinati un ardimentoso pilota dell'aviazione colpito nei cieli di Palazzolo dello Stella nel novembre 1917
SILVIO BINI

Storia e politica spesso non vanno d'accordo. A Motta di Livenza, nella primavera scorsa, l'amministrazione comunale ha deciso di erigere un monumento in onore di Luigi Italo Urbinati, un pilota della Grande Guerra, abbattuto nei cieli sopra la cittadina veneta in un eroico combattimento aereo per difendere le truppe dell'esercito italiano che si stavano assestando lungo le sponde del Piave. La Giunta comunale è orgogliosa del progetto. Urbinati, corazziere del Re prima e poi ardimentoso pilota dell'aviazione, con la sua azione valorosa ha offerto la vita per l'Italia. Nulla osta; è pensabile che i cittadini di Motta, riconoscenti posino volentieri un busto bronzeo dell'aviatore, a ricordo dell'impresa svoltasi nella zona. Ma la Storia è maestra rigorosa e non accetta ricostruzioni fantasiose. Così Alfonso Vesentini che si autocertifica come “non esperto di polenta e costa ma di altre cose sì” ed è un architetto restauratore ha scritto al giornale Oggi Treviso e sulla fine del povero Urbinati racconta tutta un'altra storia. In effetti, su un sito dell'Arma dei Carabinieri si parla di Motta di Livenza ma, dice Vesentini ”Quello che si legge (più simile ad una “indagine” o “informazioni” che ad una ricerca storico- culturale elaborata) relativamente a Italo Luigi Urbinati nato nel 1891 a “Pesaro” (?): …Dopo Caporetto il comandante dell'aviazione, generale Bongiovanni, chiese il massimo sforzo per coprire la ritirata italiana. Uno sforzo impari, come dimostrò poi tutta la successiva storia dell'Aeronautica militare, specialmente considerando le limitate capacità belliche degli aerei d'allora. Il 2 novembre 1917 (?) la squadriglia ricevette l'ordine di bombardare un accampamento austriaco a Motta di Livenza. Per colpire e mitragliare con efficacia era indispensabile scendere a bassa quota: Urbinati fu colpito alla testa. Ebbe una medaglia d'argento alla memoria……

Confermato che il Generale Cadorna, dopo Caporetto, dà l'ordine di ritirarsi sul Piave solo alle ore 10,00 del 03.11.1917 la presenza austriaci a Motta il 2.11.1917 non è documentabile.

Urbinati era alto più due metri e prima faceva il corazziere raccomandato dal barone Cillarrio che certo non lo scelse come pilota di un Caproni. La sua “grande sagoma” a bassa quota deve essere stata facile bersaglio per quell'unico colpo sparato dall'austriaco a “Motta di Livenza” (?) A Luigi Italo Urbinati è intitolata una via di Pesaro e nella motivazione che appare sul sito del Comune si legge:
(Modane 23/2/1891 Ospedale da campo 211 17/11/17)- medaglia d'argento, pilota aviatore, corazziere del re chiese ed ottenne di far passaggio nell'aviazione dimostrando in tutte le azioni cui prese parte, sprezzo del pericolo e singolare audacia. Incaricato di bombardare un accampamento nemico presso Motta di Livenza, scese a quota talmente bassa da essere investito da una raffica di mitragliatrici nemiche che lo ferì gravemente alla testa ed infranse gli organi di comando dell'apparecchio, il quale, rimasto senza guida precipitò a terra riducendolo boccheggiante fra il groviglio dei rottami. (Motta di Livenza - 2/11/17) (?)”

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Almeno lasciateci il mito del vino vendrameno
ROBERTO TIRELLI

Nella vita quotidiana guai se considerassimo solo la realtà, il vero, il certificato, il documentato…sarebbe ben triste il nostro esistere. Abbiamo anche bisogno dei miti, delle favole, delle illusioni. Non siamo forzatamente tutti scienziati o almeno non viviamo solo di scienza ove il rigore è d'obbligo e ciò che non è provato non conta. L'essere umano ha bisogno di immaginare anche quello che non c'è, talora anche dell'irrazionale.

La questione sulla quale vorremmo soffermarci  è  emersa dalle patinate pagine di “Tiere Furlane” (Organo ufficiale dell'Assessorato regionale all'Agricoltura ) e verte dell'esistenza o meno di un “vino di Latisana” cantato dalla  villotta  ( Olin bevi tornà a bevi di chel vin c'al è tant bon, al è vin di Latisane, vendemat su la stagjon) e celebrato dal racconto popolare secondo il quale a piantare le prime viti di tal specialità enologica sarebbe stato il nobile veneziano Vendramin.

È vero non ci sono documenti storici, forse il tutto è stato inventato, ma perché avventarsi contro un mito che non dà fastidio a nessuno e che, anzi, dà  dei contenuti a qualche depliant commerciale  giustamente compiaciuto di trovarsi  pseudo radici lontane per accreditare il prodotto vinicolo della zona DOC?

Lo avessero fatto dei concorrenti malevoli lo si avrebbe capito, ma che a distruggere il mito sia stato un latisanese  nessuno se lo sarebbe aspettato. Il ristabilimento della verità sul vino Vendramino o Vendrameno giova forse a qualcuno? Assolutamente no. È stato un esercizio perfettamente inutile.

E si sa che l'inutilità è l'azione più dannosa che ci possa essere.

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Segnalazioni


Il socio Giovanni Urban, artista e scrittore, è stato recentemente insignito del premio “Merit Furlan”

Giovanni Urban è nato ad Avasinis di Trasaghis nel 1936; ha percorso il classico pellegrinaggio di molti friulani: emigrante muratore in Francia e Svizzera già all'età di 17 anni, rientra in Italia a 22 anni per il servizio militare, prima ad Aosta (S.M.Alp.) e poi a Pieve di Cadore (BL), entra con contratto privato nelle Ferrovie dello Stato. Poi, vincitore di un concorso, entra in ruolo come Assistente di Stazione. La sua carriera lo vedrà salire sino a diventare Capo Gestione Superiore, qualifica che manterrà sino alla pensione.

Il matrimonio con Paola Zearo lo porta a scoprire doti nascoste di poetica e di pittura; Paola lo incoraggia e lo sostiene su questa strada.

Nel 1996 partecipa ad un corso per imparare a disegnare icone russo-bizantine. L'insegnante Paolo Orlando di Doberdò del Lago lo incoraggia e volentieri lo segue come allievo, condividendo assieme con lui due mesi di lavoro nella realizzazione di affreschi in stile iconografico nella chiesa del Redentore di Monfalcone. L'opera comprendeva la copertura con malta e colore del frontale, delle pareti e della volta dell'intera abside della chiesa. Successivamente, Giovanni lo segue anche nella chiesa di San Giovanni in Monte di Muris di Ragogna, dedicata agli alpini naufraghi della nave Galilea. Gli antichi affreschi delle pareti laterali, completamente scomparsi, sono stati sostituiti con una serie di pannelli, servendosi di una tecnica che prevede l'utilizzo della calce del Brenta.

Nel 1999, nella chiesetta della Madonna della Neve di Avasinis, ristrutturata dal locale Gruppo ANA, Giovanni dipinge, con la tecnica dell'icona, l'intera chiesetta.

Tante altre chiesette, distrutte dal sisma del 1976, hanno visto l'ingegno di Urban. Accanto alla pittura Giovanni Urban si è distinto anche nel campo letterario.

Le sue opere trovano un primo riconoscimento a Milano quando, nell'Epifania del 1986, ottiene il secondo premio al concorso nazionale di poesia dialettale italiana “La Culla”, organizzato dal “Centro Culturale San Martino” di Veduggio e presieduto da padre David Maria Turoldo.

Da allora le sue opere sono apparse in tantissimi concorsi letterari ricevendo riconoscimenti e premi, tra questi: nel 1996, 1997, 1998, per tre anni consecutivi, il primo premio per la narrativa in lingua friulana nel concorso letterario “Le pigne” di Chiusaforte; nel 1997, il secondo premio al concorso letterario “Glemone îr vuei e doman”, di Gemona; nel 2000, il primo premio al concorso di poesia “Aspettando San Valentino”, di Udine e tanti altri.

Le sue poesie e disegni si trovano negli annuari “Strolic Furlan” della Società Filologica Friulana.

Il suo primo libro, nel 2008 “L'ingjustri e il colôr”, con ristampa 2009, edito dalla Società Filologica Friulana. Per la nostra associazione ha disegnato la copertina del libro “Le chiese lungo il Tagliamento” edito nel 2006.

Ha tenuto diverse mostre di icone da lui dipinte, ultimamente nel marzo 2010 a Gemona. Resta, però, indimenticabile la frase “Bisanzio è viva” scritta da Vittorio Sgarbi nel libro dei visitatori, durante la mostra di icone esposte nella cappella Feriale del Duomo di Gemona, dal 20 dicembre 2002 al 12 gennaio 2003.

Sabato 7 agosto 2010, nel Castello di Rive d'Arcano, gli è stato consegnato il Premio “Merit furlan”.

Al socio Giovanni Urban la bassa augura ancora tantissimi successi.

Enrico Fantin


Il socio Roberto Scloza premiato a Milano per i 50 anni nell'A.N.A.

Il nostro socio e collaboratore Roberto Scloza è stato premiato con medaglia d'argento per 50 anni di fedeltà all'A.N.A. L'onorificenza gli è stata consegnata dal presidente uscente dell'ANA di Milano, dott. Giorgio Urbinati, in occasione dell'assemblea ordinaria degli Alpini soci della Sezione di Milano che ha avuto luogo nell'aula magna dell'Istituto Nazionale dei Tumori di via Venezian, domenica 7 marzo 2010.

Roberto Scloza, nato a Latisana nel 1937, fu arruolato nel novembre 1958 alla Scuola militare alpina di Aosta; destinato sei mesi dopo al 7° Reggimento Battaglione Pieve di Cadore, di stanza a Tai, fu congedato nell'aprile 1960.

Quell'anno si iscrisse all'Associazione Nazionale Alpini in congedo, rinnovando puntualmente la “tessera” negli anni successivi, sino ad oggi. Roberto Scloza (laureatosi in Economia e Commercio alla “Cattolica”, ufficiale del corpo della polizia municipale in quiescenza) è stato confermato dall'assemblea consigliere della Sezione meneghina dell'A.N.A., per il prossimo biennio.

La bassa, nel complimentarsi con Roberto per il riconoscimento ricevuto, coglie anche l'occasione per ringraziarlo per la sua collaborazione nel rivedere, con metodo certosino, le bozze delle nostre pubblicazioni.

Enrico Fantin


Con piacere segnaliamo una nuova pubblicazione realizzata dagli alunni dell'Istituto Comprensivo di Latisana. Scuola Secondaria di 1° grado “Cesare Peloso Gaspari” di Latisana nell'anno scolastico 2009- 2010. Il titolo dell'opera è Latisana. Il mondo della cultura visto dai ragazzi, la copertina mostra l'entrata della Biblioteca Civica di Latisana. Il testo è stato composto dagli alunni Bandiziol Gaia, Bianchin Luca, Fantin Nicolò, Manias Lucrezia, Mauro Diandra, Urso Francesca della classe IIIa B e Codognotto Gioia della classe IIIa D della Scuola Secondaria di 1° grado “Cesare Peloso Gaspari” di Latisana e coordinato dall'insegnante Maria Cristina Falcomer.

La pubblicazione, dopo la presentazione del dirigente scolastico, dott.ssa Chiara Zulian, la prefazione dell'insegnante prof.ssa Maria Cristina Falcomer e l'introduzione degli alunni comprende un viaggio immaginario compiuto dagli alunni ad Alessandria d'Egitto per visitare la mitica biblioteca.

La presentazione della biblioteca comunale di Latisana con le attività culturali più significative.

Le ricerche, statistiche e dati relativi al grado di istruzione e di cultura della popolazione di Latisana.

Le considerazioni globali sulle interviste a campione.

Le proposte per migliorare il servizio culturale e per meglio soddisfare le esigenze della popolazione.

Ci sono poi le conclusioni, la bibliografia e fonti, con le fonti scritte, quelle orali: 100 persone intervistate (50 adulti e 50 ragazzi) e 10 persone intervistate in biblioteca, le fonti multimediali - pagine Web.

La pubblicazione è corredata da disegni e immagini fotografiche di un grande papiro e da un plastico denominato Cento Culturale di Latisana realizzati dagli alunni.

Per “concludere e coronare tutte le idee esposte” gli alunni hanno realizzato anche un CD con la presentazione del lavoro con sottofondo musicale.

La pubblicazione è stata realizzata con il contributo e il patrocinio della Provincia di Udine e con la collaborazione della Biblioteca Civica di Latisana ed ha ottenuto il primo premio “Paolo Solimbergo” del Rotary Club Lignano Sabbiadoro - Tagliamento, Edizione 2009 - 2010.

L'associazione la bassa si complimenta con gli alunni e l'insegnante per questa pubblicazione che contiene dei dati molto interessanti anche per coloro che, al di fuori dell'ambito scolastico e dell'insegnamento, vogliano conoscere, e se è il caso migliorare, il mondo della cultura locale.

Benvenuto Castellarin

TORONTO - “Chi è stato alpino da giovane rimane alpino per tutta la vita”. È una frase ricorrente, questa, che le Penne Nere pronunciano con evidente orgoglio. Lo stesso orgoglio che provano nel ricordare il loro passato da alpini, le imprese, la montagna, i canti, il sentirsi una grande famiglia anche quando per ragioni diverse si sono trasferiti all'estero.

In Australia, in Canada, in Brasile Romania poco importa, gli alpini si sentono uniti da un legame invisibile ma forte, amano celebrare, incontrarsi, stare assieme.

Da quest'anno la loro storia è documentata in un libro in lingua italiana dal titolo “Le sezioni all'estero dell'ANA. La storia” e in lingua inglese “Alpini in transfer”.

Un lavoro certosino portato avanti con grande zelo dalle Penne Nere di ogni Paese dove risiedono alpini riuniti in sezioni e gruppi.

Anima e coordinatore dell'opera è stato Gino Vatri, presidente della Commissione Intersezionale Ana del Canada e degli Stati Uniti, che risiede a Toronto in Canada e che si è impegnato con grande passione nella ricerca di informazioni e di fotografie per rendere il lavoro il più completo possibile. Anno dopo anno, fin dalla nascita di ogni sezione e gruppo, sono state menzionate le attività delle Penne Nere: raccolte fondi, serate di gala, convegni, adunate nazionali nelle città italiane trovano posto nelle pagine del libro così come belle fotografie in bianco e nero e a colori a testimonianza di quanto scritto.

È una piccola bibbia delle Penne Nere che vivono fuori dai confini del Bel Paese questo libro che sarà una testimonianza per le generazioni future delle attività degli alpini, del loro forte spirito di Corpo, delle loro iniziative nel campo del volontariato, del loro legame con l'Italia.

A tradurre il libro in versione inglese è stato padre Marco Bagnarol mentre le correzioni del testo sono state affidate a Marsha Chiarotto-Breault. La versione italiana è nata grazie ad Ornello Capannolo e a Maurilio Di Giangregorio.

E se come sostengono gli alpini commossi “chi è stato alpino da giovane rimane alpino per tutta la vita” questo libro è nato affinchè tutto quel che loro hanno fatto in vita rimanga per sempre nella storia.

Merita essere segnalato un romanzo scritto da un giovane latisanese. “Il canto del Segugio” è il titolo del primo libro di Luigi Nardi. Dalla prefazione leggiamo: “E' quasi l'alba quando l'Elfo Glenyller giunge alla casa di Kruel Donigham. Kruel è un Segugio una guida in grado di scovare le migliori piste persino nel mezzo di territori inesplorati; un tempo al servizio dell'esercito, lo ha da ann abbandonato nel tentativo di sfuggire alla sua corruzione. Ma adesso per lui è tempo di tornare. L'Ovest è infatti minacciato dalle incursioni nemiche, la guerra è alle porte, e a Kruel viene affidato un incarico di vitale importanza; per portarlo a termine dovrà superare i propri limiti, spingendosi al di là della sua stessa immaginazione. E mentre il Segugio affronterà le sue paure e il suo futuro, lo stesso Glenyller vaga alla ricerca di alleati con cu costituire un fronte comune in grado di tener testa al nemico. Avvincente e ricco di colp di scena, Il canto del Segugio è un romanzo fantasy intenso e trascinante, l'epico racconto delle gesta di Uomini, Elfi, Folletti che sfidano la loro natura e il destino per proteggere la loro terra e difendere le loro vite.”

Distribuzione per le librerie Mursia S.p.A. (Nuove Voci - IMAGO Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. Roma) Incontro multietnico.

Venerdì 1 aprile 2011, a Latisana, presso il Centro Polifunzionale si è tenuto un interessante incontro multietnico denominato “Saggi e assaggi, spizzichi di cucina dal mondo”. Con letture ed assaggi di piatti etnici e tipici friulani per bambini, ragazzi e adulti italiani e stranieri.

L'incontro è stato organizzato dalla Biblioteca Civica di Latisana con il contributo della Provincia di Udine - Direzione Area Funzionale e Welfare, Servizi Politiche Sociali e l'ACLI provinciale di Udine in collaborazione con varie associazioni ed enti. E' inserito nel progetto “Pronto Biblioteca” che tende a far conoscere i servizi culturali e bibliotecari ai cittadini immigrati curato dal “Circolo Mediatori Culturali Linguistici ACLI della provincia di Udine”. Sono state pure coinvolte le biblioteche civiche di Cervignano del Friuli, Ruda e Udine.

A rappresentare l'Italia in particolare il Friuli è stato chiamato il nostro cosegretario Benvenuto Castellarin che ha parlato, con proiezione d'immagini sui cibi della tradizione friulana. Fofana Mah Aissata, mediatrice ACLI, ha presentato il suo  ricettario di cucina africana. Liliana Varna, mediatrice ACLI, ha illustrato, pure con illustrazioni, come vengono  decorate le uova di Pasqua in Romania.

Katerina Skiba, mediatrice ACLI, ha trattato il rito del pane in Ucraina, dove il pane e i suoi derivati hanno avuto un'ampia importanza nelle usanze e nei riti di quella nazione. Najia Razza, mediatrice culturale e mamma che collabora attivamente  da tempo con le scuole del territorio, ha descritto i sapori e  i profumi della cucina del Marocco.

All'iniziativa sono stati coinvolti anche i bambini e ragazzi, con una sezione a loro dedicata. Anna Zossi, ad esempio, dello Sportello per la Lingua Friulana del Comune di Latisana, ha spiegato loro la preparazione del pane nella tradizione friulana. Eva Zidan, mediatrice siriana dell'ACLI, ha mostrato ai bambini  come si scrive in arabo: alla fine i bambini hanno mostrato i propri nomi scritti in lingua araba. Peter Diaz Castello, mediatore peruviano dell'ACLI, ha tenuto con i  ragazzi un laboratorio musicale: alla fine aiutati anche dal maestro Pier Giovanni Moro hanno suonato una brano musicale peruviano.

Negli intervalli fra una relazione e l'altra, Luisa Pestrin ha letto alcuni brani tratti da libri  presenti nella biblioteca di Latisana che trattano di cibi e di cucina friulana, italiana e straniera. La coordinatrice del progetto “Pronto Biblioteca”  del Circolo Mediatori Culturali Linguistici ACLI, Monica Vila Palomino, ha illustrato gli scopi e gli intendimenti del progetto stesso.

Coordinatrice dell'incontro è stata la bibliotecaria dott.ssa Anna Rita Carlet. Alla fine dei “saggi” ci sono stati gli “assaggi” di piatti etnici e friulani, particolarmente gradito è stato il “rito del te” presentato come esso si svolge in Marocco.

Il pubblico presente ha particolarmente gradito l'incontro non solo per aver appreso interessanti notizie dai relatori sui loro cibi, cucine e consuetudini, ma anche un singolare esempio d'integrazione non conflittuale delle genti che emigrano nei nostri paesi in cerca di un miglior benessere.


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Recensioni

A proposito de La Traccia dell'acqua di Salvatore Errante Parrino Vi è molto di più che una labile scia idrica nel romanzo di Salvatore Errante Parrino (La traccia dell'acqua, Morganti editori - Collana Contemporanea, 2011. € 14,00) appena distribuito nelle librerie. Vi è uno stillicidio che esonda e finisce per travolgere. E' naturale che così sia per un'opera letteraria ambientata nel Medio Friuli dove l'acqua sgorga e scorre in ogni possibile variante: fiumi, risorgive, rogge e fossati, negli zampilli di fontane e vasche di pietra e al di sotto di lavatoi di legno che più nessuna donna friulana utilizza per il bucato.

Acque ancora verdi e cristalline, un tempo guizzanti di trote, gamberi e lontre e oggi avvelenate dai reflussi di diserbanti agricoli.

Quello ambientale è solo uno dei cambiamenti che l'autore riporta nel libro perchè tra le pagine sottolinea tante delle incongruenze estetiche del Friuli contemporaneo (come la nevrotica tutela linguistica del friulano che va a braccetto con un'incomprensibile indifferenza per i beni urbanistici e gioielli architettonici che vengono ignorati per fare spazio alle mostruosità della globalizzazione cementizia).

Spaventato dell'avanzare dei "non luoghi" che divorano la bellezza, l'autore afferra uno dei piccoli fazzoletti di terra che avvolgono un borgo intatto e vi ambienta un romanzo che si svolge (tranne alcune divagazioni geografiche a Venezia e Monaco di Baviera) nello spazio di poche migliaia di metri quadri: una sorta di Paradise lost.

Custodito e cullato dal fogliame di questo hortus conclusus che vegeta come un'enclave in mezzo a centri commerciali, tangenziali e rotonde (così come Gradiscutta era enclave asburgica in mezzo alla sovranità della Serenissima) Errante Parrino tesse una vera trama borghese che al tatto rimanda alla morbidezza del jersey, del velluto o del cachemire ma indossati sopra un paio di stivaloni di gomma. Incuriosisce e stupisce allo stesso tempo l'armonia che distilla tra due mondi contrastanti che si conciliano nella persona del protagonista.

Romanzo borghese che poco concede all'esistenziale sulla scia di tanta letteratura italiana che ha avuto già un importante precedente negli stessi luoghi con La casa a Nord Est che ha valso a Sergio Maldini il premio Campiello nel 1992. La contiguità con "quella" casa salta all'occhio anche se la la trama, di questa ammicca ad altri generi come il noir o un gotico nostrano.

Albert Dammer - un bavarese benestante, rientrando da Lignano, capita per caso a Belgrado di Varmo sulle rive del Tagliamento dove viene attratto dal fascino decadente di una cascina abbandonata.

Deciso l'acquisto avvia immediatamente i lavori per il restauro che daranno il via a una serie di coincidenze come la scoperta di un affresco cinquecentesco sotto una coltre di malta e il conseguente arrivo di una graziosa restauratrice locale, Marzia, con cui inizieranno scaramucce intellettuali ed affettive grazie ad un ricamo di comuni interessi.

Il paese, la bionda Marzia ma soprattutto la casa lo stregano inducendolo a lasciare Monaco di Baviera per trasferirsi nel borgo friulano contro il parere di tutti: famigliari e amici che - mondani - non saprebbero resistere che qualche giorno nella uniforme piattezza furlana.

Snobbato e deriso dai membri della sua classe sociale, Dammer vive un senso di colpa che lo trascina in una sorta di nevrosi che gli fa accostare la sua relazione con Marzia ad una antica storia tra il pittore che affrescò la chiesa locale (Gian Paolo Thanner) e una ragazza plebea (Licieta) morta suicida nel XVI secolo: la colpa di avere abbandonato le consuetudini borghesi dovrà essere punita dalla Nemesi.

Se ne ricava il profilo di una personalità fragile e al tempo stesso testarda, ipersensibile alla bellezza (pare affetto da una sindrome di Stendhal per la bellezza minima) e che sa cogliere quello che nemmeno i locali vedono, percepisce quello che nessuno avverte come un poeta incompreso.

La sua solitudine rassegnata richiama in parte a quella di Gustav von Aschenbach, protagonista di Morte a Venezia di Thomas Mann, e solo alla fine se ne distacca nettamente. Chi si accosti al libro, noterà subito che la forma mentis del protagonista è intrisa di una certa ingenuità: un ragazzone di buona famiglia che è rimasto alieno a tutte le perversioni che la modernità ci impone e coltiva un romanticismo che rasenta l'innocenza (soprattutto nel suo timoroso approccio alla giovane Marzia). La volontaria ricerca di sensazioni mediane, di riflessione di uno spleen nella pianura letteraria di Varmo, lo rendono quasi anacronistico: in un tempo in cui conta solo la fisicità e il soddisfacimento immediato si può tollerare qualcuno che coltiva l'attesa come un obiettivo? Cimentarsi nella lettura di un libro del genere è quasi una sfida ad uno stile di vita troppo spesso dato per scontato.

Alberto Frappa Raunceroy

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