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copertina numero 87 la bassa

la bassa/87

anno XLV n. 87, Dicembre 2023

Estratti di
articoli e saggi
della nostra rivista

In copertina:
Particolare della carta
Fori Iulii accurata descriptio
dal “Theatrum Orbis Terarum
di Abraham Ortelius (1527 - 1598)
Anversa 1573

Adunata Nazionale Alpini 2023. Latisana,
11 maggio 2023,
gli “Alpini del Basso Tagliamento” in marcia per solidarietà,
verso il Castello di Udine.

Sommario


Gli “Alpini del Basso Tagliamento” In marcia “Dalla Foce al Castello” per solidarietà

Enrico Fantin

Prima di passare alla cronistoria della settimana trascorsa per raggiungere la meta di Udine, città capitale Alpina del Friuli, introduciamo alcune note storiche di come è nata l’idea di questa camminata.

Nel 1933 giunse a Latisana l’alpino Amedeo Della Pietra che assieme al tenente dott. Antonio Piermartini (medico condotto di Ronchis) ed altri fondarono il primo Gruppo Alpini “Basso Tagliamento”, così era stato denominato in quanto comprendeva il mandamento di Latisana, della destra e sinistra del fiume, da una parte San Michele al Tagliamento, dall’altra gli attuali Comuni di Latisana, Ronchis e Lignano Sabbiadoro.

Il Gruppo era intitolato alla memoria del tenente degli alpini Rodolfo Rossetti, di Latisana. Fu inaugurato nel 1934 a Pordenone, alla presenza dell’allora Ordinario Militare, della madre di Rossetti e del Sindaco di Latisana con una sessantina di soci.

Col passare degli anni e con il rinforzarsi delle file il Gruppo si è sciolto andando così a creare i Gruppi nei vari paesi.

Da un’idea del compianto Paolo Milani appassionato storico nel recupero di materiali autentici museali, di San Michele al Tagliamento, in occasione dell’adunata di Pordenone del 2014, gli alpini della zona hanno voluto ricreare l’antico Gruppo “Basso Tagliamento” con l’intendo di organizzare una marcia storica, con i mezzi d’epoca, da lui posseduti, senza far mancare i “muli” per il tragitto di San Michele al Tagliamento fino a raggiungere Pordenone.

L’ esperienza ebbe successo tanto che venne riproposta nel 2017 in occasione della marcia verso Treviso con partenza da Latisana. Nell’adunata nazionale di Udine 2023, si è voluto riproporre l’esperienza acquisita, anche perché nel prossimo futuro potrebbero non esserci più tante occasioni.

L’idea, quanto mai innovativa, è stata quella di coinvolgere al passaggio del convoglio, tutti i Gruppi dei paesi lungo il tragitto, soffermandoci nelle Scuole e soprattutto sostando davanti ai Monumenti dei Caduti per un dovuto raccoglimento nel ricordare i sacrifici dei nostri soldati morti per la Patria.

La colonna era formata, oltre ad un considerevole gruppo di alpini, da un carro ambulanza di fine ’800, utilizzato nella Prima Guerra Mondiale, trainato da una cavalla e da quattro muli con conducenti.

In particolare la sfilata con i muli è stata sbalorditiva se non altro per i ragazzini che hanno forse per la prima volta conosciuto questo splendido animale, tanto amico degli alpini sia durante la “naia”, ma, soprattutto, durante gli anni terribili delle guerre mondiali basta nominare Grecia e Russia.

Arrivo a Latisana in Viale Stazione

La colonna arriva a Latisana in Viale Stazione.

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A zujâ di fobal

Gianfranco Ellero

Quando si importa un’invenzione (religione, macchina, strumento, cibo, medicina, gioco … ), si importa anche il vocabolario tecnico che l’accompagna, espresso da parole di solito straniere, che poi vengono lentamente “naturalizzate”, cioè tradotte o adattate, almeno nella pronuncia, alla lingua degli importatori, oppure, se di uso elitario, rimangono tali e quali come parole tecniche.

Nel tennis, ad esempio, sport da aristocratici, importato dall’Inghilterra, anche in Italia si usano parole come net, game, set, match, accanto a dritto, rovescio, passante, schiacciata, servizio eccetera.

Anche le arti marziali giapponesi conservano il vocabolario tecnico originale, difficilmente adattabile all’italiano: judoka è il giocatore, judogi il suo abbigliamento, tatàmi>/em> il tappeto, dan il grado di “cintura”, eccetera.

Nel caso del foot-ball, invece, sport molto popolare anche perché, dimostrò Mordillo in un indimenticabile album, praticabile in luoghi molto diversi dai campi regolamentari - un prato alberato, un sagrato, una spiaggia, una piazza di paese (prima del boom automobilistico) … - la lingua tecnica fu italianizzata sotto la spinta del fascismo (“qui si parla solo italiano”): il foot-ball è diventato quindi calcio, il goal rete, il penalty rigore, il free kick punizione, il corner calcio d’angolo, l’off-side fuori gioco, il trainer allenatore (ma dagli anni Sessanta mister). Tradotti anche i ruoli dei giocatori: il goalkeeper è diventato portiere, il back terzino, lhalf mediano, il wing ala, il centre forward centravanti.

Ormai il lessico calcistico italiano è corrente anche nei campetti di paese e di periferia, ma un tempo era intarsiato con friulanismi, e ciò non sorprende se a Udine il gioco del calcio fu praticato fin dai primi anni Novanta dell’Ottocento, e l’Udinese è una delle prime squadre italiane, che appare fin dal 1896. Esisteva, quindi, un gergo tecnico in friulano: il gioco era il balòn (giuâ di balon); il dribbling, che sta all’origine del curioso neologismo anglo-italiano dribblare, veniva tradotto con il meraviglioso verbo schiribicjâ, letteralmente scarabocchiare; esistevano poi la puarte, il puartîr, il gôl (con la ‘o’ lunga), e, sul calco dell’italiano, il terzìn, il median, l’ale, la miege ale, il rigôr, il corner e l’opsai (imitazione fonetica di off side, fuori gioco).

A Fraforeano, tuttavia, il lessico friulano del gioco del calcio, era un po’ diverso e originale. Incominciamo dal terreno di gioco, sempre chiamato “campo sportivo”: situato a sud del parco de Asarta, fra la strada provinciale e l’argine del Tagliamento, provvidenziale gradinata in direzione nord-sud per gli spettatori che venivano anche da Ronchis e da Canussio.

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Il commercio fluviale nel porto di Latisana

Benvenuto Castellarin - Rroberto Tirelli

Latisana nel Medioevo è stata conosciuta e frequentata in virtù del suo porto collocato nel tratto finale del Tagliamento e con ingresso diretto nel mare Adriatico. Si tratta di una collocazione geografica ideale per i commerci che, in tal modo, possono svilupparsi al sicuro dia dai pirati sia dagli agenti atmosferici. Presentiamo due interventi a tal proposito di Benvenuto Castellarin e Roberto Tirelli.

Storia de commerci a Latisana sul Tagliamento

Il 3 aprile 1077, per la fedeltà dimostrata, Il Patriarca di Aquileia l’investitura feudale di Duca del Friuli, Marchese d’Istria e il titolo di Principe, costituendo quindi il Principato ecclesiastico di Aquileia, feudo diretto del Sacro Romano Impero. Nel sec. XII Latisana era divenuta un territorio autonomo amministrato direttamente dall’«Avocatus» della Chiesa aquileiese. Nel 1102 un Corrado, marito di Matilde di Mosburg, acquistò dai coniugi Egimone e Irmingalt, tutti i beni da loro posseduti in Istria e «in comitatu foroiuliensis … in Latisana et in Castellono». Vendita questa di notevole importanza politico amministrativa che fu confermata dall’allora patriarca di Aquileia Woldarico di Eppentein.

Il 27 ottobre del 1226
Cessione da parte del Conte di Gorizia Mainardo il Vecchio al Patriarca di Aquileia Bertoldo di Merania per 400 marche d’argento di vari suoi possedimenti, diritti e rendite, tra cui il «... Portum de Latisana cum omnibus suis pertinentiis ......». E’ la prima volta che si attesta l’esistenza di un porto fluviale sul Tagliamento a Latisana.

Il porto doveva già allora godere di una certa importanza commerciale poiché in quel secolo circolava a Latisana un denaro (scodellato) che in seguito verrà detto di Latisana, fatto coniare agli inizi del 1200 dai conti di Gorizia, nella loro zecca di Lienz o di Friesach in Carinzia per alimentare i fiorenti commerci portuali.
Possessioni in Friuli dei conti di Gorizia nel XIII secolo.

Il 15 aprile 1253, da Venezia Mainardo III Conte di Gorizia vende per 4000 lire veronesi per 4 anni ai veneziani Marco Zorzano, Matteo Polo e Marino Soranzo le rendite delle case, dazio e macello di Porto Latisana e di ogni altro bene che colà possedeva:
« ... dedit vendidit et tradidit .. omnem introitum et proventum seu fictum domorom portus latisane Mutam ipsius portus et quidquid ad predictum pertinere dinoscantur proventum Macelli portus eiusdem ...».

Il richiamo al macello è significativo perché, viene attestata una «merce» facente parte della «muta» (dazio) del porto e quindi evidenzia gli scambi commerciali e vendita anche di derrate macellate.

Ma è con il documento del 1261; che si ha un’idea dei molteplici traffici commerciali del Porto di Latisana durante il XIII secolo. Dall’accordo fra Mainardo di Gorizia Rappresentato de Berenzio capitano di Begrado (di Varmo) e Glizoio di Venzone riguardanti il porto e il commercio di Latisana (Archivio Storico provinciale di Gorizia, ms. 114 «Aquileia») che qui presentiamo una copia settecentesca.

Le merci che transitavano per il porto latisanese erano:
Il già citato sale, rame, stagno, balle di pannilani (tessuti di lana), stoffe di lino, di frustagno, sapone, olio, fichi, anguille, botticelle di miele, forni di ferro, animali come buoi, maiali, ecc.

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Campomollo iuxta Postoimam

Benvenuto Castellarin

La prima attestazione di Campomolle è del 1214 Actum in Campo mollo juxtaPostoimam. In un’altra forma: unum mansumiacente in villa Campimolli è citato il 14 giugno 1226 a riguardo di una investitura del Patriarca di Aquileia a domina Diamotae de Atimis del luogo di Ariis. Campi molle è attestato pure fra le ville esentate dal pagamento della muta (dazio) nel patto doganale o accordo siglato il primo agosto del 1261 tra Glizoio di Mels di Venzone e Berenzio capitano di Belgrado quale rappresentante del Conte di Gorizia.

Ancora nel Saggio del di Prampero lo troviamo attestato nel1270, In villa Campimolli. Altre varianti del nome come: Campomollo, Campomolio, Comollo, Camoglo, Camolli, Camolio, sono presenti nel Catapandella chiesa di Santa Felicita di Castellutto.

Nel 1330 Asquino di Varmo confessa di avere beni feudali a: Latisana, Fraforian, Theor, Campomolli[...].

Una informazione manoscritta presente fra i documenti della famiglia Savorgnan certifica che nel 1492 li masi di Campo molle, unitamente a quelli di Ruda, masi di Ziracco, maso di Grauglio e decima di Viscon, erano soggetti alla giurisdizione austriaca, pervennero nella famiglia Savorgnan, discendente del fu Pagan del fu Tristan Savorgnan [...] per la testamentaria disposizione 26 aprile 1492 di Giusto del fu Giacomo di Zucco col qual testamento istituì eredi Maddalena sua sorella moglie del sudeto Pagan unitamente a Troian Savorgnan figlio di detta Maddalena.

Dunque nel 1492, Giacomo Giusto del fu Giacomo di Zucco, possedeva molti beni a Campomolle e anche la giurisdizione (nel 1500 è detto feudatario), passati per eredità indiretta alla famiglia Savorgnan. Importante è la notizia che il 21 agosto 1563 l’Imperatore Ferdinando d’Austria investì per la prima volta Tristano Savorgnan del fu Pagan e Nicolò suo cugino dei terreni in Ruda, Chiopris, Visco e Campomolle, pervenuti ereditariamente alla famiglia Savorgnan. Per questi beni i Savorgnan in seguito ebbero altre investiture. Ad esempio, quella del 1565, data dall’Arciduca Carlo figlio del fu Ferdinando, così si esprime: Gli concediamo però in virtù delle presenti tutto quel jus che gli deremo e potemo concedere, cosichè, da mò inanzi loro, et suoi eredi gli riconoscemo da noi, e dopo [come eredi] da nostri eredi Conti di Gorizia in feudo. L’ultima investitura si ebbe nel 1745.

Il trattato di Noyon,stipulato il 13 agosto 1516, pose fine al conflitto, iniziato nel 1508, tra la repubblica di Venezia e Massimiliano d’Austria. La tregua fu perfezionata il 6 maggio 1521 a Worms in virtù dei quali la Repubblica Veneta prometteva, tra l’altro, di astenersi da ogni ingerenza e da atti di sovrana giurisdizione nel territorio di Marano e su vaste zone del Basso Friuli, comprese le enclave imperiali di Sivigliano, Flambruzzo, Campomolle, Driolassa, Rivarotta, Precenicco, Pescarola, Titiano, Goricizza, Gradiscutta (di Varmo) e Virco austriaco. Sotto la dominazione veneziana furono riconosciuti Pordenone, Belgrado, Castelnuovo e Codroipo.

Mapp aTopografica Bass Friuli XVIII secolo

Le enclave austriache nella Bassa friulana in un particolare della “Mappa topografica del territorio del Friuli e delle Contee di Gradisca e Gorizia compreso tra i fiumi Corno con lo Stella e l’Isonzo”, senza data ma della seconda metà del sec. XVIII, di autore ignoto. (Archivio Storico Provinciale di Gorizia, atti degli Stati Provinciali, sez. II a , disegno n.363).

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Qui professi sumus… ex natione nostra lege vivere bavariorum

Roberto Tirelli

In una “cartula promissionis”, cioè una promessa per iscritto del 24 febbraio 1101, riguardante la donazione di alcuni beni immobili in Flambro da parte di una nobile famiglia cividalese ad un tal Corrado, i donatori si impegnano a non rivendicare in futuro quanto donato, professandosi circa due aspetti fondamentali che li riguardano: la “natione” (l’appartenenza per nascita) e soprattutto la legge cui obbediscono: quella dei bavari, citando anche quella dei longobardi abbandonata dalla moglie per, come prescritto, adeguarsi al marito.

Sono queste citate nel documento due delle cosiddette “leges barbarorum”, di quei popoli che sono subentrati ai romani nel dominio dell’Europa occidentale alla caduta dell’Impero. Secondo Isidoro di Siviglia ciascuna tribù (stamm) era caratterizzata da origo (provenienza), lex, mores (costumi), religio e lingua. Per questo motivo ciascun popolo porta con sé il suo patrimonio di norme di convivenza.

Si tratta di un insieme di leggi emanate dai sovrani: la lex salica, la lex ripuaria, la burgunda, degli Alemanni o dei Visigoti…Molte sono le similitudini fra le varie leggi barbariche, alternative al diritto romano. Infatti il diritto romano non è abolito, ma vale solo per i romani nei loro rapporti giuridici interni e per gli ecclesiastici in concorrenza con il diritto barbarico, che, ovviamente, ne è influenzato.

Anche dopo la caduta dei regni barbarici e l’instaurarsi del Sacro Romano Impero la opzione per la legge “nazionale” (jura propria) rimane in vigore perché permangono la forza delle tradizioni ed il senso di appartenenza, l’orgogliosa rivendicazione di una identità. Benchè valga il principio “ubi lex est, praecellat consuetudinem et nulla consuetudo superponatur lege.”

In Friuli dopo quelle dei Goti, per un periodo breve presenti nella pianura, predominano le leggi longobarde (leges Langobardorum), ma si ritrova pure una piccola minoranza che sceglie di vivere sotto altre come, ad esempio, la lex bajuvarorum estesa anche al Noricum (l’attuale Austria).

E ciò perché i popoli germanici non hanno l’idea di stato e mantengono quella di tribù con legami di fedeltà (fidelitas). Proprio per questo fatto il diritto nel periodo barbarico conosce molte incertezze poichè lo stato è debole o non esiste e non ha piena e sicura coscienza dei suoi compiti e delle sue funzioni sul territorio. Tale situazione si constata soprattutto nel Ducato del Forum Julii longobardo poichè non potendo imporre il proprio diritto integralmente alla popolazione romana troppo diversa per civiltà e per costumi i sovrani dovettero consentire ai vinti almeno nei rapporti fra loro l’uso del loro proprio diritto. La legge romana vive così accanto alla legge longobarda secondo il sistema della personalizzazione del diritto. La vittoria di Carlo Magno sui Longobardi fa poi valere anche in Italia tutti quei diritti che vigevano all’interno della monarchia franca sicchè si aggiungono anche le leggi dei Franchi Sali e Ripari, degli Alamanni, dei Bavari, dei Burgundi e dei Visigoti insieme forse con qualche altra legge poi andata dispersa. E’ questo pluralismo voluto da Carlo Magno: “voluntas domini regis est ut unusquisque homo suam legem habeat”.

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Presenze ebraiche nella Bassa friulana attraverso i secoli

Carmela De Caro

L’intento di questa ricerca è quello di segnare una breve mappa della presenza ebraica nei territori della Bassa friulana cogliendone origini, motivazioni e sviluppo nelle comunità cristiane nei tempi nonché cause della scomparsa successiva. In tempi più vicini a noi, poi, rintracciare nomi e storie di ebrei presenti nei nostri paesi durante il secondo conflitto mondiale negli spazi compresi tra Pordenone e Codroipo, tra i fiumi Noncello e Tagliamento.

Ripercorriamo prima di tutto alcuni passaggi normativi che, nei secoli passati, portarono ad un’apertura religiosa sempre crescente nei confronti delle minoranze in genere e verso gli ebrei.

Ebbene le prime aperture si verificarono con la rivoluzione francese e il decennio successivo al 1789, quando la costituzione e le nuove leggi fissarono sulla carta principi favorevoli alla libertà di culto religioso e non solo. Il Codice Napoleonico riservò l’emancipazione alle minoranze con la concessione di diritti civili e politici, cosa che in Friuli si verificò tra 1806 e il 1814. Nel 1815 col ritorno degli austriaci, nonostante il cattolicesimo ritornasse ad essere religione di stato e le minoranze venissero di nuovo osteggiate, fu introdotto il diritto di professare un culto diverso da quello cattolico. Successivamente gli ebrei lottarono da protagonisti nei fatti della Repubblica Romana e nella Repubblica di Venezia e Carlo Alberto di Savoia con le “regie patenti” emancipò sia valdesi che ebrei. Con l’Unità d’Italia, l’emancipazione cui si accennava fu diffusa nel nuovo Regno d’Italia.

Riportiamo solo alcuni dei passaggi normativi verificatisi tra il 1789 e il 1848:

1789. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino il 20-26 agosto 1789 afferma:
Art. 10 “Nessuno deve essere indagato per le sue opinioni, anche religiose”;

1793. L’ Atto costituzionale del 24 giugno 1793 – dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino afferma:
Art. 7 “Il diritto di manifestare il proprio pensiero e le proprie opinioni, sia con la stampa sia in tutt’altra maniera, il diritto di riunirsi in assemblea pacificamente, il libero esercizio dei culti, non possono essere interdetti.”;

1795. La Costituzione del 5 fruttidoro (22 agosto) 1795 dice:
Tit. XIV –Disposizioni generali, Art. 354 “Nessuno può essere impedito di esercitare, conformandosi alle leggi, il culto che ha scelto. Nessuno può essere forzato a contribuire alle spese di un culto. La Repubblica non ne stipendia alcuno.”;

1797 – Nella costituzione della Repubblica Cisalpina viene ripreso dalle costituzioni rivoluzionarie francesi il principio della libertà di culto. La Costituzione della Repubblica Cisalpina Tit. XIV. Art.565 ratifica: “A niuno può essere impedito di esercitare, conformemente alle leggi, il culto che ha scelto.”;

1805-1814- Periodo in cui Pordenone è compresa nel Regno Italico;

1806 introduzione del Codice Napoleonico nel Regno Italico;

1848- Regie patenti di Carlo Alberto Re di Piemonte e Sardegna. La legge Sineo (19 giugno 1848) stabilisce, nel suo articolo unico, che «la differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici ed alla ammissibilità alle cariche civili e militari».
Pordenone “castello e terra murata, circondati dal fiume Noncello”. “Pordenone è uno castello, ne la patria del Friul, […]; et vi sta uno Cap.° […] el qual abita nel castello che è molto forte; et Pordenon è bellissimo, pieno di caxe, con una strada molto longa, si intra per una porta et si ensse per l’altra; va in longo. E’ protetor San Marco … Qui … è una bella loza (loggia) et piaza …” Marin Sanudo nel suo Itinerario per la terraferma veneziana del 1483.

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Une vecje “conte” vere di Teôr

Aleardo Di Lorenzo

Si sa che a è simpri esistude int semplice, pronte a crodi a dut, come che and’è uei cuant ca si dîs ch’i vin un grant progrés: nome che a son gambiadis li’ credinzis. Une volte a si podeve crodi a robis che cumò a somein impossibilis e lu mostre une storie sucedute un otante/novante ains indavôr. A contamile a è stade une persone mancjade une ventine di ains fa, Jacu Cili (Giacomo Collovati) ch’al ere stât a lavorâ in Canada e dopo tornât a Teôr si veve sposât cu la sôr di Gino Puciu, purtrop muarts ancje lôr.

Jacu mi contave che un dal paîs, un mataran di bune fantasie, al veve pensât di fâ un scherz originâl a un beât on ch’al viveve bessÕl. Al à fat cussì: une sere a si è gjavât i vistîz, a si è dat sù pês pardut il cuarp e a si à tacât intôr tanti’ plumis. Dopo cun une forcje in man al è lât viars la cjase dal sio compaesan. Rivât lì al è lât sul tet e al è entrât tal camin, vignint jù dut frusignât devant a chel puaret. Cuant che chistu a lu à viodût dut neri e cu la forcje in man, plen di pore al à dit: “Siôr Diaul, jo soi un trist cristian; blestlemi e no voi a messe!”.

Chistu al podeve sucedi une volte: par vie che a sarès dificil meti dongje pês e plumis in grande cuantitât e massime parche uei tante int a no crôd ne al Diaul ne al Signôr (ma a crodin ai imbrojons su internet!).

(Furlan di Teôr)

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L’archivio famigliare dei Mocenigo di San Stae
La documentazione relativa alla Giurisdizione di Latisana

Luca Vendrame

La famiglia Mocenigo è stata una delle più ricche e potenti del patriziato veneziano, sempre presente nel Maggior Consiglio dalla Serrata del 1297 al tramonto del 1797. Ben sette, appartenenti ai vari rami in cui si divise la stirpe, furono i Dogi Mocenigo e innumerevoli gli alti incarichi (procuratori di San Marco, ambasciatori, rettori in terraferma, vescovi…) ricoperti dai membri del casato.

Il ramo di San Stae (Eustachio) discende da Nicolò Mocenigo (figlio di Tommaso e Lucrezia Marcello) che, nel 1554, acquistò il palazzo sul Canal Grande. Con quest’atto Nicolò si staccò definitivamente dal ramo detto di San Samuele (quello da cui discese l’Alvise creatore di Alvisopoli). Il 14 febbraio 1582 Marcantonio Mocenigo (figlio di Nicolò) sposa Bianca Vendramin; in virtù di questa unione la famiglia Mocenigo entra in possesso di 4 dei 24 carati (parti) in cui era divisa la Giurisdizione di Latisana, entrando così a far parte dei consorti. Sono queste le ragioni, qui sommariamente descritte, che spiegano il legame tra la famiglia e i territori a cavallo dell’ultimo tratto del Tagliamento.

Il palazzo rimase proprietà della famiglia fino al 1953, allorché la casata si estinse alla morte di Alvise II Nicolò, il quale aveva testato nel 1931 legando il Palazzo di San Stae al Comune per farne una galleria d’arte a completamento del Museo Correr. Nel codicillo al testamento apposto in data 5 agosto 1945 le volontà espresse furono:
l’intero mio palazzo sito in Venezia a San Stae (…) sia assegnato al Comune di Venezia perché abbia ad usufruire per galleria d’arte a completamento del Museo Correr, con tutto il mobilio in esso esistente, compresi i quadri, i busti rappresentanti i ritratti di famiglia e quelli che rappresentano le antiche gesta degli antenati Mocenigo che desidero siano conservati e riuniti nel detto palazzo come nel testamento di mio padre. (…) Qualora il Comune di Venezia non intendesse di accettare questa donazione, il palazzo con tutto il suo contenuto sarà assegnato a mia moglie. Il mio archivio di famiglia sarà consegnato al Museo Correr che dovrà conservarlo in deposito nella sua integrità.

I beni rimasero a disposizione della vedova di Alvise Nicolò fino alla morte, sopravvenuta il 5 gennaio 1974, poi il palazzo, gli arredi e l’archivio furono consegnati al Comune di Venezia. Il consistente patrimonio librario - di famiglia e quello acquisito in occasione di matrimoni fino alla fine del XVIII secolo - fu alienato e disperso già in epoca napoleonica e durante la Restaurazione (1811 e 1835). Solo una piccola parte del materiale librario è confluito ed è consultabile, grazie a donazioni successive, presso la Biblioteca del Museo Correr.
Nel 1985, dopo consistenti restauri, il Museo fu aperto al pubblico.

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Un Paese ricorda il suo poeta: don Sandro Naiaretti

Enrico Fantin - Alberto Terasso

In una splendida giornata di novembre del 2022, dai magici colori autunnali, i frazionisti di Prato e Prico e la parrocchia di San Canziano di Prato Carnico hanno organizzato la “Fiesta dal Cjalcìn”. Una festa di beneficenza dove le Donne della val Pesarina e oltre, dai 20 ai 102 anni hanno fatto a mano calzini e berretti di lana i cui proventi sono stati poi devoluti in beneficenza per la costruzione di pozzi d’acqua potabile in Africa.

Nell’occasione il programma è stato impreziosito da un ricordo del poeta Sandro Naiaretti, scomparso a seguito in un tragico incidente stradale il 1° novembre 2006, portandolo via alle molte comunità che aveva servito come sacerdote, ma soprattutto alla sua terra, la Val Pesarina, e a tutti quelli che ne apprezzarono la generosità nello spendersi in favore del prossimo. Curatore dell’evento il giornalista Alberto Terasso. Riportiamo il suo sentito intervento, non privo di sincera emotività, ispirato e indirizzato da Luigina Agostinis nella raccolta delle testimonianze, che ha dato un’impronta incancellabile dell’operato di Sandro.

Per la verità, un gruppo di amici, che con lui avevano condiviso l’annuale ricorrenza della sua consacrazione, a dieci anni dalla sua morte, aveva deciso di ricordarlo con il libro “Vores tornâ”.

Don Sandro scriveva poesie che ha via via pubblicato con una certa costanza. Ebbene coloro che hanno avuto la fortuna di stargli vicino, hanno scelto fior da fiore nella sua produzione, scoprendo una sensibilità non solo estetica, ma anche, per certi versi, sociologica, che va a raccontare le radici e i forse troppo malinconici approdi della Carnia e dalla Valle Pesarina.

Or bene, in quest’ultima occasione, lungo le vie di Prato Carnico, sono state installate tante gigantografie come dei “Tazebao” che riportano le sue liriche.

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Il diario di Mario Pignat

Giorgio Milocco

Alle già estese conoscenze che i cittadini di Aiello possono vantare di possedere si sono aggiunte in questi ultimi anni altre memorie scritte riferenti le vicende collegate alla prima guerra mondiale. Materiale di estremo interesse che meritava di essere pubblicato e che porta nuova luce sulle vicende guerresche. In questo caso l’inedito memoriale, pubblicato innanzi, è frutto dell’impegno, purtroppo non portato a compimento, di Gianna Pinat vedova Cian figlia di Mario. Leggendo il titolo scelto dagli estensori si evince che il racconto doveva terminare il 25 dicembre 1918 con il probabile arrivo a casa del padre dopo l’esperienza bellica sotto le file asburgiche.

Il primo capitolo comunque era stato portato a termine e visto dove era andato a finire vie da chiedersi se per caso la signora Gianna abbia voluto avere un giudizio in anteprima da parte del maestro e studioso Camillo Medeot prima di proseguire nella raccolto dei dati che gli forniva il padre. Questa “trance” comunque era rimasta nell’Archivio personale del Medeo, che dopo la sua morte, è stata donata a quello pubblico del Seminario Arcivescovile di Gorizia. Molti anni fa l’ho notato e quindi fotocopiato riservandomi di pubblicarlo quando avessi avuto l’occasione. Aiello alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale aveva 1756 abitanti ed apparteneva alla Contea Principesca di Gorizia e Gradisca. Giovanni Pinat, padre di Mario era il più noto batti ferro-carpentiere di Aiello. Fu arrestato ed internato sin dal 1.6. 1915 dai militari italiani che lo costrinsero come altri aiellesi pellegrinare da un posto all’altro in Italia (Cremona, Castellamare del Golfo – Sicilia). L’accusa rivoltegli era: “Noto austriacante, la cui presenza è pericolosa ed inopportuna”. A seguito di alcune istanze rivolte alla Commissione per la revisione degli internamenti fu rilasciato il 20.10.1916.

Il fratello Domenico Pinat (Meni, 1890/+1931), ufficiale nel K.u.k I.R. Nr. 64, autore egli stesso di un diario di guerra, dopo il recupero, è stato oggetto di una specifica pubblicazione da parte dell’Associazione Storico Archeologica “Natio cvm Turro” Bassa Friulana Orientale (2002). Il titolo della stessa: Dal fronte galiziano alla Polonia russa”. A seguito delle prime elezioni amministrative sotto l’Italia (1922) si presentò capolista con i socialisti del suo paese e vintele divenne sindaco per un breve periodo.

In età per il servizio militare all’interno del suo gruppo famigliare vi erano anche i fratelli Francesco (Checo, cl. 1892) e Giovanni (cl. 1899). Quest’ultimo comunque dopo la “Rotta di Caporetto” del 1918.

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Piraterie e questioni uscocche in Adriatico

Mauro Buligatto

Provate a domandare: «Mi descriveresti un pirata, un corsaro o un bucaniere?» Bypassando le difficoltà riguardanti l’attribuzione etimologica di ogni singolo appellativo, è probabile che la maggioranza degli interpellati risulti focalizzata sulla medesima immagine. Ovvero su quella di un barbuto spadaccino, abbigliato con un tricorno sul capo, una camicia con sbuffi alle maniche e al collo, stretta in vita da un cinturone con pistole ad avancarica. Nulla di più corretto perché l’immaginario collettivo è rimasto intriso dalla letteratura prima e dalla filmografia poi, massimamente ispirate al florido periodo storico della pirateria nautica (XVI-XIX secolo).

Viceversa si può affermare che questa attività nacque nel momento in cui l’uomo si organizzò per solcare i mari. Tuttora viene praticata, con ovvio utilizzo di tecnologie e mezzi sofisticati. Se poi accogliamo il significato esteso del termine pirateria, scevro dalla connotazione etimologica classica del “brigantaggio marittimo”, possiamo elencare alcuni fatti e personaggi noti, compresi in questo tema. Facciamo l’esempio del bottino riguardante i quattro cavalli di San Marco, sottratti a Costantinopoli dalla Repubblica Serenissima: il tutto durante l’accerchiamento e la razzia, avvenuti nella IV crociata. Il doge Enrico Dandolo spogliò l’ippodromo della città imperiale inviando il gruppo scultoreo bronzeo a Venezia dove, nel 1254, venne ricollocato sulla terrazza della Basilica di San Marco. In secoli successivi il piratage si perpetuò perché il Corso, nell’ambito delle spoliazioni napoleoniche di fine Settecento, dispose di trasferire l’opera equestre a Parigi, a coronamento dell’Arco di Trionfo. In altro scenario sempre Napoleone, durante la campagna militare d’Egitto, s’impadronì della Stele di Rashid (meglio nota come -di Rosetta). Che dire poi di Giuseppe Garibaldi? Qui entriamo maggiormente in tema. Infatti nella sua permanenza in Brasile, allorquando abbracciò la causa separatista de la República Rio-Grandense, venne nominato comandante della neo costituita flottiglia. Nei vari scontri navali, arrembaggi e sequestri di merci Garibaldi si formò militarmente, pure grazie a queste esperienze: le tattiche di sorpresa e di guerriglia apprese si rivelarono poi vincenti in ambiti di terraferma. A tutti gli effetti era un corsaro. In territori e tempi a noi più vicini scopriamo persino un Gabriele d’Annunzio dedito a queste attività. Egli nel 1920, durante la Reggenza Italiana del Quarnaro, si trovò nella condizione di doversi procurare forzosamente quel che serviva, attraverso azioni di rapina. Dalla conversione di unità legionarie presenti a Fiume egli istituì i Reparti Uscocchi: come si può capire la nomenclatura riutilizzata dal Vate ricorda le schiere di avventurieri che, dal XVI secolo, qui operava no per mare correntemente. Tali unità vennero così organizzate per aggirare il blocco navale-terrestre che il governo di Roma volle infliggere alla neo formata reggenza fiumana: uno sbarramento che la rendeva letteralmente isolata da qualsiasi rifornimento.

Ciò nonostante le azioni di taglieggiamento neo-uscocche furono reiterate, con bottini ottenuti per mare e per terra. E qui ci fermiamo citando il recente sequestro della nave ucraina Tzarevna, nel porto di Mariupol e la razzia del carico d’acciaio speciale, destinato ai laminatoi di San Giorgio di Nogaro.

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Gli «ex voto» del Santuario della Beata Vergine delle Grazie di Sabbionera

Enrico Fantin

Il crescente interesse che da alcuni anni a questa parte ha preso per oggetto gli ex voto, favorendo, attraverso finanziamenti regionali e nazionali, lussuose edizioni monografiche, almeno per quanto riguarda i Santuari più noti e venerati, ci hanno consentito di esplorare e conoscere in modo dettagliato e didattico queste singolari manifestazioni della religiosità popolare.

La Società Filologica Friulana è stata antesignana nella Regione Friuli Venezia Giulia a promuovere e dare alle stampe, attraverso qualificati studiosi, dei volumi ad hoc, cito solo alcuni: “Gli ex voto del Santuario di Castelmonte”, “Gli ex voto del Santuario di S. Antonio di Gemona del Friuli”, “Gli ex voto della Carnia” e “Gli ex voto della Madonna delle Grazie di Udine”.

Ci sarebbero però altri santuari nel Friuli che custodiscono questi ex voto, simboli di grazie ricevute e che questi quadretti o semplici cuoricini sono documenti e restano tali a giudizio del fedele.

Fra i santuari sparsi nella Regione si trova anche il Santuario della Beata Vergine delle Grazie di Sabbionera in Latisana.

L’occasione di riportare alcune note su questo Santuario, adagiato accanto l’argine alla sinistra del fiume Tagliamento, ci viene data dalla cronaca a causa di u n incendio divampato nel pomeriggio di lunedì 19 giugno 2023 all’interno della chiesa Beata Vergine delle Grazie in via Sabbionera a Latisana, poco distante dall’ospedale della cittadina.

Dall’edificio era uscita una grande quantità di fumo e le cause del rogo sono ancora da chiarire, pur sospettando la natura dolosa. Per fortuna un passante vedendo quel fumo uscire ha allertato i vigili del fuoco che sono intervenuti immediatamente con tre squadre e che hanno provveduto a limitare le fiamme e a contenere i danni che secondo una stima sono ingenti.

Sul posto sono intervenuti per i rilievi i carabinieri della stazione di Latisana.

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“Tacete, che darei a voi!”. Un Processo penale a Muzzana del XVII secolo

Renzo Casasola

La società civile feudale medievale, nel Friuli rurale in particolare, fondava la propria economia sull’uso arcaico delle terre, coltivate e mal lavorate da una massa di contadini indigenti, analfabeti, misogini e spesso rissosi. Questi ultimi, loro malgrado, erano soggetti all’autorità politica del Patriarca, a quella economica dei Canonici di Aquileia, alle vessazioni dei feudatari locali ed alla forte pressione fiscale esercitata dalla Repubblica di Venezia sui beni comunali. In questo contesto di estrema arretratezza socio-economica la difesa dei diritti collettivi nonché quelli privati era ritenuta prioritaria ed identitaria in seno alla propria comunità. E se le risse con quelle limitrofe per l’indeterminazione dei confini nelle ville rurali della Bassa scandivano il lento trascorrere del tempo, su scala ridotta definivano il rapporto di forza tra il piccolo proprietario ed il ladruncolo che commetteva il furto a suo danno, spesso per necessità.

In questo contributo si pone l’attenzione su un verbale rogato nel mese di luglio del 1666 presso la cancelleria dei signori di Colloredo, giurisdicenti di Muzzana, in cui si conservano gli atti di un processo penale a carico di Giuseppe Gori, giovane e irascibile marinaio residente nella villa della Bassa Friulana. L’uomo era stato accusato di aver intenzionalmente bastonato e ferito, per futili motivi, una vedova del luogo la cui sola colpa era quella di aver difeso la propria figlia, dal reo accusata del furto di alcuni “pomi” nel suo “horto”. L’episodio non sarà certamente stato l’unico nella villa della Bassa in cui fu usata violenza verbale e fisica contro le donne; spesso relegate in ruoli marginali in seno ad una società profondamente maschilista e misogina.

L’elenco dei nomi degli attori citati in questo processo, inoltre, evidenzia la rilevanza della professione di marinaio in seno ad una comunità rurale storicamente legata all’economia agricola. Ciò denota il consistente traffico mercantile fluvio-lagunare tra gli approdi dei corsi d’acqua delle ville perilagunari della Bassa e l’Arsenale veneziano. Da alcuni dettagli rilasciati all’auditore dai vari testimoni, inoltre, è possibile ricostruire la dinamica dell’aggressione e il luogo in cui si svolse.

La denuncia
Di fronte ai giurisdicenti di Colloredo, feudatari di Muzzana, Il 27enne marinaio “paron Gioseffo Gori figlio di paron Biasio”, residente nella villa della Bassa, era stato accusato da “donna Paul”, 67enne vedova relitta di “Zuanne marinaro Peressino”, di averla “agredita in muodo brutal”, e percossa a bastonate con il buinz, provocandole ferite alle braccia e alle spalle “con effusione di sangue”. Alla donna, dai commissari legali, “le fu osservata una contusione con gonfiezza sopra il dito indice che si vede impedir il moto alle dita indice et medio, con dimostratione pericolosa; e possia scoperto il braccio stesso fu osservato di sopra il comedon una contusion regressa con lividezza per il ricevudo, et del più d’un scudo, dicendo inoltre dolersi nelle spalle et schiena a causa di bastonate rilevate et da segni a braccia et spalle”.

Perché dunque tanta violenza nei confronti di donna Paula? Che cosa aveva scatenato l’ira del Gori, al punto da passare dalle minacce ai dati di fatto? A queste e a molte altre domande “paron Gioseffo” di fronte a Gio Francesco Muzzenino, auditore e cancelliere dei Colloredo, era stato convocato a fornire validi e circostanziati motivi a sua difesa.

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Lo “Jus Venandi” Medievale nelle paludi e foreste al di sotto della linea delle sorgive

Roberto Tirelli

La caccia è una delle primordiali attività umane per la sopravvivenza. E’ fondamentale anche nell’affermarsi del feudalesimo. Al tempo degli Ottoni di Sassonia e dei primi territori friulani assegnati ai Patriarchi di Aquileia dal loro potere imperiale la caccia diviene una “pratica di Governo” piuttosto che una fonte di nutrimento come risulta dalle ricerche archeologiche in alcuni castelli. Il “jus venationis” diventa per chi lo esercita una fonte di riconoscimento della propria autorità sulle foreste planiziali della Bassa friulana nell’alto Medioevo. Anche i canonici di Aquileia che reggono Castions di Strada non cedono su questo punto anche se si limitano a far cacciare ad altri solo selvaggina di penna e lepri. Nelle paludi di Mortegliano, Flambro e Marano l’esercizio della caccia nel Medioevo subisce molte limitazioni a causa delle difficoltà a muoversi nell’ambiente per chi non lo conosce ed è limitato alla stagione invernale con un ampio uso di trappole. Diversa è invece la gestione delle foreste ove i diritti sono sanciti da una lunga tradizione normativa.

La selvaggina veniva considerata, se viva e non catturata “res nullius”, cioè di nessuno, diventava di proprietà di chi la cacciava solo dopo morta purchè questi la custodisse «eo usque tuum esse intelligitur, donec tua custodia coercetur». Gli animali selvatici perdevano, infatti, con la cattura il loro carattere di res nullius, ma se riuscivano a sfuggire dalla custodia (custodia evaserit) ritornavano alla loro condizione naturale, cessando di essere proprietà del primo che li prendeva.

Secondo il diritto romano e quelli barbarici la qualità di res nullius, che caratterizzava gli animali selvatici, permetteva a chiunque di acquisirne la proprietà. Non importava il luogo dove si fosse svolta la caccia: «nec interest feras bestias et volucres, utrum in suo fundo quisque capiat, an in alieno». Era indifferente se l’animale selvatico veniva acquisito sul proprio fondo o su un fondo altrui. Certamente il proprietario del terreno su cui si accedeva per inseguire o catturare la fauna selvatica poteva vietare l’accesso e questo nella salvaguardia di un diritto più forte di quello di caccia, la proprietà..

Al tempo dei Longobardi pare che le foreste planiziali, dette saltus, ed affidate alla cura ed alla sorveglianza dei saltarii, guardie forestali, fossero uno dei terreni di caccia dei duchi del Forum Julii, soprattutto per le cacce “clamorose” al cinghiale ed al lupo. Queste ultime poi si terranno per tutto il medioevo con la partecipazione anche dei contadini per la difesa del loro patrimonio animale domestico.

Vi erano poi le cacce “silenziose” che si affermeranno in una fase successiva. L’editto di Rotari, che per evitare contestazioni che potevano nascere tra i cacciatori in merito alla cattura e alla proprietà della preda, stabiliva tutta una serie di provvedimenti che sono poi passati nella legislazione successiva della caccia in Friuli nel Medioevo e sono, alcune, tuttora presenti nella tradizione locale.

Andare a caccia era una prova dellla validità e del coraggio del duca longobardo, come più tardi del signiore feudale e si svolgeva prevalentemente a cavallo e con i cani. Il duca poi re Astolfo ebbe, un giorno, a fallire la sua preda e non ne ebbe certo un ritorno di stima da parte dei suoi. Nel successivo periodo carolingio, l’autorità sovrana incominciò gradualmente ad attribuirsi il diritto esclusivo di legiferare su tutto ciò che riguarda la foresta (alberi, vegetazioni, fauna e acque). Forst é il termine che qualificava questo diritto, da cui deriva la parola foresta, che si affiancava a silva, termine privo di contenuto giuridico. Gran parte infatti delle foeste planizialle avevano la definizione proprio di silvae perché non adatte ad ospitare per la loro natura grandi partite di caccia.

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Ecclesiae Sanctae Mariae de dicta villa de Sancta Maria la Longa. Il campanile della chiesa di Santa Maria Assunta parrocchiale di Santa Maria la Longa e le chiesette votive del capoluogo

Giulia Sattolo

Il 18 settembre 1910, nell’occasione della Festa del SS. Redentore, faceva il suo ingresso nella Parrocchia di Santa Maria la Longa il parroco Don Fiorenzo Venturini il quale, fin da subito, affrontò con prontezza e senza indugio l’annosa questione riguardante la costruzione del nuovo campanile.

La vecchia torre campanaria, che si trovava sul sito dove oggi sorge la seconda stanza della sacrestia, venne fatta demolire nel 1903 su ordine della Regia Prefettura di Udine poiché pericolante. Il campanile era certamente di costruzione anteriore all’attuale Chiesa parrocchiale, costruita o ampliata verso il 1700; era fabbricato completamente in pietra e sassi, aderente con un lato alla Chiesa ed un altro alla sacrestia (vecchia sacrestia lato sud) di proporzioni ed altezza normali, aveva un tempo anche la guglia che si alzava snella sulla cella campanaria.

La torre già nella seconda metà del 1800 versava in condizioni precarie, ma ricevette il colpo di grazia nell’aprile del 1888. Don Valentino Grinovero, parroco d’allora, comunicò repentinamente la disgrazia alla Curia Arcivescovile di Udine in data 13 aprile. Accadde che, durante la funzione serale del Rosario del 10 aprile, un fulmine era disceso per la sommità della guglia del campanile, passando attraverso le pareti della sacrestia e scrollandone una, perforando un lato di una cappella della Chiesa, frantumando i vetri delle finestre ed infine peggiorando le crepe esistenti nel coro 4 . I fedeli rimasero miracolosamente illesi. Alcuni giorni dopo il tragico avvenimento il vicario generale del vescovo di Udine concesse su richiesta dello stesso Don Grinovero di celebrare una sacra funzione di ringraziamento.

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La storia come fattore di integrazione culturale nella Bassa friulana

Giovanni D’Arco

Da qualche anno,sia pure a distanza e non con continuità, seguo l’attività de “la bassa”. Ho visto per caso da un amico alcuni numeri della rivista e sono ancora stupito del fatto che a realizzarla sia un gruppo di volontari addirittura senza grossi incentivi pubblici o privati. Altrove sarebbero orgogliosi di possedere una ricchezza culturale simile e ne avrebbero costituito un qualcosa che ne valorizzasse l’apporto alla società civile. Noto, invece, che,salvo poche persone sensibili, nessuno se ne cura specie fra le istituzioni pubbliche e le realtà economiche locali. Questo bene culturale non è una giacenza “morta”, ma si tratta di un bene culturale vivo, rappresentato da delle persone di buona volontà e di vaste conoscenze storiche.

Durante un mio recente soggiorno estivo a Lignano Sabbiadoro nella locale biblioteca ho potuto sfogliare altri numeri della rivista ed ho trovato il modo di incontrare il Presidente dell’Associazione dal quale ho avuto il gentile omaggio di alcuni libri e molti chiarimenti sugli impegni e le difficoltà di un sodalizio che, tra l’altro, al momento, non ha ricambi generazionali e rischia di estinguersi in un mare di indifferenza.

Mi meraviglia che non ci sia un collegamento con le istituzioni che possono contare nella materia storica, come, ad esempio, l’Università, ma mi è stato spiegato che il prezioso lavoro dei ricercatori viene guardato con disprezzo da parte dei cattedratici che non ammettono altro sapere se non il loro. Non credevo che in Friuli ci potesse essere tanta insipienza e non si desse valore a quel tempo libero sacrificato, sia pur con piacere, fra vecchie carte per poi far condividere le memorie riscoperte e raccolte. Queste persone generose chiedono solo di poter vedere pubblicate le loro ricerche e null’altro.

Ciò mi induce a fare una riflessione sulla storia ed il suo ruolo nel territorio della Bassa friulana che ritengo di conoscere abbastanza bene essendo una parte della mia famiglia materna di radice nel corso finale del Tagliamento.

In questi ultimi decenni, a cavallo fra il XX ed il XXI secolo, stiamo assistendo anche nella Bassa friulana ad un fenomeno non nuovo, ma decisamente più veloce che in passato: l’estinzione delle “vecchie” famiglie e il comparire nelle anagrafi comunali di nuovi cognomi .Questo passaggio ieri avveniva in continuità di tradizione, cioè di condivisione del senso di appartenenza alla comunità paesana che comprendeva cultura, storia, religione, lingua, costumi locali. Oggi nulla o quasi viene condiviso se non la residenza anagrafica. Tutto il resto è frammentato e le difficoltà di integrazione aumentano perché prevalgono le diversità e non ci sono occasioni per ricompattare il tessuto umano dei paesi come sarebbe logico e utile non solo per il presente, ma soprattutto per il futuro.

Quando ci chiediamo a cosa possa oggi servire la storia, non basta citare delle reminiscenze classiche tipo “magistra vitae” perché, purtroppo, non hanno nessun impatto in un sistema scolastico che la trascura e, dunque, non è in grado di accendere l’interesse per essa. Non possiamo neppure portarla in narrazione alle istituzioni e a chi le rappresenta nella Bassa friulana poiché non è il passato che loro interessa, ma solo il presente. La storia è scomoda perché stimola la memoria e talora far uso di questa facoltà non giova alle ambizioni di chi si vuol presentare sempre nuovo e sempre giovane.

Oltre a tutte le nobili intenzioni che possono giustificare la passione fortemente minoritaria per la storia, in un momento nel quale né il raccontare né il leggere hanno incidenza sulla quotidianità, dobbiamo pensare ad una funzione pratica: stimolare l’integrazione del passato con il presente, il nuovo con quanto è stato tramandato. Non è un compito facile soprattutto perché vengono ad essere finanziate dalle Regioni e dai Comuni iniziative effimere, piuttosto che consolidate e formative proposte di ricerca e divulgazione storica.

Quando non ci sarà più chi, sui documenti e sulle testimonianze, ricostruisce il tempo passato non per proprio interesse, ma per utilità di tutti, la nuova “geografia” umana dei paesi della Bassa friulana sarà davvero, per riprendere una espressione di Tito Maniacco,“senza storia”. Solo che ieri una storia l’avevamo e ne eravamo “senza” solo per le versioni ufficiali, mentre domani senza nulla da condividere sarà davvero il deserto. Non c’è nulla di peggio del non avere ricordi che vadano oltre la presa di coscienza di se stessi, del non sentire radici. Certamente si può appartenere ad altre culture, lingue, religioni, ma anche queste provengono da un substrato storico che al minimo è condivisione dell’umanità, ma può essere anche qualcosa in più da recuperare e mettere in campo per trovare punti di incontro con la civiltà che sinora si è manifestata nella realtà europea, nel Friuli e se vogliamo, con tratti di originalità suoi anche nella Bassa friulana. La conoscenza storica serve per dare la “sveglia” al meccanismo della memoria in modo che si incominci a riflettere sul “da dove veniamo”. La costruzione di una società è frutto delle conquiste e dei fallimenti che l’umanità consegue nel passare del tempo. Anche la storia degli ultimi due secoli è utile a non perdere la costruzione di una sequenza di fatti e di problemi che ci concernono, in misura maggiore o in misura minore, ma non ci vedono estranei.

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