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Dall'aquila patriarcale al leone marciano

La bassa friulana tra il tardo medioevo e la prima età moderna

Dall'aquila patriarcale al leone marciano

a cura di Franco Rossi e Roberto Tirelli

I “friulani”, che la storia, a far tempo dai primi anni del XIX secolo con l’unione della porzione meridionale della Destra Tagliamento al neocostituito Dipartimento dell’Adriatico, ha reso “veneti” de jure, non volendo lasciare scolorire passivamente i valori delle loro secolari tradizioni, in considerazione della specifica appartenenza culturale e linguistica, ritengono quanto mai utile far propria una riflessione “di qualità” su questo loro passato più o meno prossimo, e meglio e più ancora sulla rivisitazione critica di quei momenti, di quei fatti, di quei protagonisti maggiori e minori, che hanno caratterizzato e in qualche modo caratterizzano tutt’ora la comunità friulana nel contesto della Regione Veneto.

A ragion veduta traendo le mosse da un evento storico oltremodo significativo: il venir meno nel corso dell’estate del 1420 del Patriarcato temporale di Aquileia; ovvero a far tempo da quella cesura istituzionale dalla quale ci separano oramai giusto sei secoli, e che, comunque la si voglia intendere, costituisce ancora oggi un vulnus evidente nelle vicende di questo particolare territorio compreso tra Tagliamento e Livenza, dalla fascia delle risorgive al mare; un vulnus che ha posto le premesse per la successiva sedimentazione del confine amministrativo tra l’appartenenza alla Regione Veneto e l’appartenenza alla Regione autonoma Friuli Venezia Giulia. Spostamento di confine verso est, dalla Livenza al Tagliamento, e più ancora insanabile frattura nel contesto territoriale della millenaria diocesi di Concordia, le cui ragioni politiche e amministrative potranno forse essere ostiche da cogliere e comprendere ai giorni nostri, e più ancora da giustificare, ma del quale in ogni caso, a livello storiografico, si deve sempre tener conto, a maggior ragione a distanza di oltre due secoli.

Questo allora il senso di una ricerca che ha avuto quale finalità precipua quella di offrire alla “friulanità” presente in area “veneta” – e non solo a quella – una solida e qualificata cifra storiografica e culturale nel senso più ampio del termine, tesa a far emergere e a valorizzare quell’innegabile percezione di comune appartenenza identitaria che unisce, ove più ove meno, e ben più di quanto ai giorni nostri le effimere tracce esteriori lascino pur sempre trasparire, le genti che ancora oggi vivono a stretto contatto benché al di qua e al di là del Tagliamento. Percezione che non può venir meno soprattutto all’interno di una regione, qual’è il Veneto, il cui baricentro, oggettivamente, sembra virare con particolare rilevanza verso i confini occidentali piuttosto che orientali, ma dove le superstiti minoranze linguistiche e culturali rappresentano ancora una volta una straordinaria ricchezza e al tempo stesso offrono un apporto quanto mai significativo al suo eccezionale e meraviglioso patrimonio storico-culturale.

Ricerca che approda alle stampe dopo alcuni decenni caratterizzati dalla mancanza della pur necessaria continuità d’impegno quando non anche da iniziative sporadiche ed estemporanee e, per molti aspetti, anche dalla resa passiva alle “velleità culturali” di volta in volta dominanti e in maggior misura appaganti, e che ora, grazie ai contributi di Pier Carlo Begotti, Enrico Fantin, Vincenzo Gobbo, Eugenio Marin, Franco Rossi, Roberto Tirelli, Luca Vendrame e Luigi Zanin, si appalesa quale svolta particolarmente significativa nel ridotto contesto dell’indagine d’autore attiva in ambito locale.

Da tempo, infatti, era emersa con forza la necessità di dar voce a un corpus di risorse storiografiche quanto mai idonee a mantenere e rafforzare, ove necessario, l’identità friulana – e non solo dal punto di vista linguistico – di un territorio solo formalmente “di frontiera”, ma un tempo parte integrante e non certo secondaria del Friuli “storico”, anche a gratificare e remunerare gli intenti promossi e sostenuti dalle varie realtà associative operanti al di qua e al di là del Tagliamento; soprattutto nel momento in cui affiorava con sempre maggior credito una più estesa summa di connessioni culturali in grado di favorire una migliore e approfondita comprensione multidisciplinare del territorio oggetto d’indagine, volta non tanto, e prioritariamente, alla conoscenza, alla conservazione e alla difesa di un patrimonio linguistico per forza di cose in via di omogeneizzazione, quanto piuttosto alla più corretta riproposizione in chiave critica di una straordinaria e irripetibile eredità storica.

Così, mentre Pier Carlo Begotti, dopo aver sunteggiato la consistenza degli inse-diamenti benedettini del Friuli, maschili e femminili, si è soffermato sui monasteri un tempo presenti nella Bassa, appartenenti anche alle congregazioni riformate cistercense e camaldolese, San Martino Rotto, Santa Maria di Sesto, Santa Maria di Summaga, Sant’Agnese di Portogruaro, Santa Maria di Sesto, Santa Maria di Varmo, Santa Maria di Aquileia, San Martino della Beligna, San Giovanni in Tuba, esaminando in particolare la situazione creatasi tra XIV e XV secolo nella fascia tra il Carso e il Tagliamento e poi tra il Tagliamento stesso e la Livenza, Enrico Fantin, scavando in profondità tra le pieghe di alcune singolari vicende genealogiche del patriziato veneziano, ha rivolto la sua attenzione ai particolari rapporti intercorsi tra il Dominium veneziano e la comunità latisanese prima e dopo la conquista veneziana della Patria del Friuli, mettendo in luce la straordinaria capacità dello stato lagunare di flettere ai suoi interessi, con assoluta disinvoltura, anche gli istituti giuridici più ostici del diritto feudale.

Vincenzo Gobbo invece, da archeologo di razza, traendo le mosse dai numerosi ritrovamenti che sembrano caratterizzare e vivacizzare la temperie archeologica contem-poranea, si è soffermato sul quadro distributivo e sulla diffusione delle ceramiche rinascimentali nel territorio del Veneto orientale e Friuli, compreso entro i confini del Patriarcato di Aquileia, riconducibili sia a prodotti provenienti da “officine” locali (come, per esempio, Castelnuovo del Friuli) sia a manufatti realizzati in area veneta occidentale (Venezia e Padova), cercando di analizzare un possibile utilizzo in chiave propagandistica, visto l’arco cronologico della loro diffusione nel territorio in esame; ceramiche a forme aperte (scodelle, bacini) e chiuse (boccali), recanti un decoro graffito e dipinto sotto vetrina, tra le quali spiccano quelle con un forte richiamo a Venezia e ai simboli che intendono rievocare se non proprio celebrare le accattivanti suggestioni connesse ai valori e al potere politico della Serenissima, delle quali fa fede il tipico leone marciano.

E se Eugenio Marin, da parte sua, focalizza le sue osservazioni sull’innegabile impatto che il mutamento del contesto statuale conseguente agli avvenimenti del 1420 esercita nei confronti dell’organizzazione spirituale “friulana” nei suoi diversi livelli, da quello metropolitano aquileiese a quello diocesano di Concordia, passando per i Capitoli delle cattedrali fino alle semplici strutture – pievi e parrocchie – sulle quali era venuta via via organizzando la cura d’anime all’indomani della conquista veneziana, Franco Rossi si propone di lumeggiare meglio in profondità, sulla scorta di una rigorosa e critica rivisitazione della documentazione archivistica disponibile, e soprattutto al di là delle ingiustificate e ingiustificabili superfetazioni partigiane proprie della storiografia portogruarese anche recente, spesso variamente orientate nelle due tradizionali direzioni opposte, la cifra complessiva degli articolati e non di rado contradittori rapporti intercorsi tra la città del Lemene e lo stato veneziano – comunque istituzionalmente configuratosi nel corso dei secoli – dalla concessione livellaria gerviniana del 1140 alla conquista/dedizione del 1420, e alle sue inevitabili conseguenze sociali ed economiche, quanto meno fino ai decenni centrali del XV secolo.

E se Roberto Tirelli nel suo contributo affronta e problematizza la contesa tra Venezia e il Patriarcato di Aquileia, che non è soltanto scontro politico o dialettico legato al possesso di un territorio, ma ha radici lontane, ideologiche e religiose, sottolineando opportunamente come una si accrediti erga omnes grazie al possesso del “Vangelo” marciano mentre l’altra accampi quale diritto fondante la conservazione del corpo del santo tutelare, come una sia rurale e feudale, altra mercantile e urbana, e quanto una sia terra, l’altra acqua, e riportando a queste differenze, originali e lontane nel tempo, le ragioni non dette di quel che avvenne nel 1420; Luca Vendrame fa invece oggetto della sua indagine il territorio a nord del contesto portogruarese, gli attuali comuni di Fossalta di Portogruaro, Teglio Veneto, Gruaro e Cordovado, spingendosi nell’esplorazione agli ambiti circonvicini, e proponendo sostanzialmente i risultati di una ricerca basata sull’analisi di alcuni contesti tipicizzanti la società friulana a cavallo della conquista veneta: in particolare i mulini, in quanto centrali nella vita degli uomini d’ancièn regime e perché fulcro del potere signorile, e i castelli, soprattutto in merito alle giurisdizioni feudali espresse, considerato che queste, se in linea di principio non vengono modificate nell’estensione o nei diritti del giurisdicente dalla dominazione veneziana, da questa vengono indubbiamente intaccate nei loro diritti signorili.

Chiude il volume l’accurata analisi di Luigi Zanin, rivolta a gettar nuova luce sulle funzioni rivendicate e non di rado espletate dai milites e dai castellani attivi a Portogruaro, il centro di maggior rilevanza del Friuli occidentale, negli anni del patriarcato di Antonio Panciera; anni che precedono di poco l’inevitabile fine del potere temporale dei patriarchi e la conseguente aggregazione di gran parte del Friuli “storico” allo stato veneziano da terra, contraddistinti da alcuni fattori meritevoli d’essere presi in debita considerazione, in particolare nel contesto del ruolo sempre più rilevante assunto dai centri urbani e dai maggiori agglomerati rurali nelle vicende politiche del territorio, probabilmente destinato ad avere maggiore rilevanza nelle future dinamiche regionali, tema che, purtroppo, non sempre è stato preso in giusta considerazione dalla storiografia con quell’attenzione che certamente merita.